venerdì 5 settembre 2014

La buona scuola di Renzy's

Una prima riflessione sul titolo: “La buona scuola – Facciamo crescere il Paese”.
Per iniziare, non possiamo far a meno di notare quanto sia singolare il fatto che la proposta di “riforma” della scuola partorita dall’attuale Governo, porti un titolo non burocratico, bensì uno squisitamente ideologico. A prima vista si tratta di un titolo che potrebbe essere superficialmente interpretato come “buonista”, com’è nella migliore tradizione piddina. Tuttavia, crediamo, a nessuno potrà sfuggire il retrogusto logico di questo apparente buonismo: se la scuola “buona” fa crescere il Paese, chi è contro questa “riforma” è, invece, fautore di una scuola cattiva e, quindi, in realtà vuole porsi come ostacolo alla crescita del Paese (non a caso siamo in recessione, e qualcuno potrebbe sentirsi autorizzato a pensare che sia tutta colpa della scuola)! Ma la cosa più stupefacente, che nelle intenzioni dovrebbe spiegare il motivo del titolo, viene dalle prime parole dell’Introduzione. Perché all’Italia serve la scuola “buona”? Perché - questa è la risposta - essa deve essere capace di “sviluppare nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico. Che stimoli la loro creatività e li incoraggi a fare cose con le proprie mani nell’era digitale”! Quindi, l’assunto di partenza, per il quale si rende necessaria la riforma, è che la scuola cattiva sinora non è stata in grado di stimolare la curiosità dei ragazzi e lo sviluppo del pensiero critico! Evidentemente Renzi, e lo staff del MIUR che ha redatto questo documento, ha in mente la scuola dell’epoca di De Amicis, o quella del libro e moschetto, e quindi la soluzione del problema va ricercata nella capacità di iniettare nel corpo docente, cioè in corpore vili, quella giusta dose di spirito di iniziativa, di avventura e di sacrificio che sono propri del mondo scoutistico! E vogliamo parlare del “fare cose con le proprie mani nell’era digitale”? A parte la sensazione piuttosto consistente, e comunque sgradevole, di una palese contraddizione logica che questa infelice espressione evidenzia, ma, la domanda reale è: sinora chi ha impedito alla scuola italiana di entrare nell’era digitale? I “cattivi maestri” o i Governi che negli ultimi anni hanno badato soltanto a tagliare a mani basse le risorse ad essa destinate? Infine, la domanda delle domande! Perché il Paese ha bisogno di questa riforma? Perché essa si propone di “dare al Paese una Buona Scuola dotandola di un meccanismo permanente di innovazione, sviluppo, e qua­lità della democrazia”! Vediamo più da vicino questo “meccanismo”!
Cap. 2 Le nuove opportunità per tutti i docenti: formazione e carriera nella buona scuola
Al centro del progetto renziano troviamo la necessità di dare impulso alla “qualità” del docente, i quali dovranno essere “valutati e responsabilizzati pubblicamente”, e dai quali “ci si aspetta che non insegnino solo un sapere co­dificato (più facile da trasmet­tere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving, ecc.)”. A tal fine verrà creato “un gruppo di lavoro dedicato e composto da esperti del settore [che] lavorerà per un pe­riodo di tre mesi per formulare il quadro italiano di compe­tenze dei docenti nei diversi stadi della loro carriera”!
 Come si opererà concretamente per realizzare questo tipo di competenze, delle quali sino ad ora la scuola italiana era evidentemente a digiuno?
“I docenti devono essere i pri­mi a potersi giovare di una formazione costante”, che non sia di ostacolo alla continuità didattica come sinora avvenuto”! Pur non riuscendo a comprendere come, sino ad ora, la formazione sia stata di ostacolo alla didattica, facciamo finta di nulla e chiediamoci: di che cosa si “gioveranno” i docenti? “Al docente va offerta l’opportunità di continuare a riflettere in maniera sistema­tica sulle pratiche didattiche; di intraprendere ricerche; di valutare l’efficacia delle prati­che educative e se necessario modificarle; di valutare le pro­prie esigenze in materia di for­mazione; di lavorare in stretta collaborazione con i colleghi, i genitori, il territorio”.
Ammesso e non concesso che, sino ad ora, i docenti non abbiano mai fatto riflessioni di questo tipo, tutti concentrati com’erano sugli scatti automatici di carriera, la domanda che a questo punto si impone è la seguente: ma è proprio vero che i docenti si “gioveranno” di questa nuova “opportunità” che viene loro così generosamente “offerta”? La risposta, inopinata, giunge immediatamente: “Per fare questo, bisogna ren­dere realmente obbligatoria la formazione, e disegnare un sistema di Crediti Formativi (CF) da raggiungere ogni anno per l’aggiornamento e da lega­re alle possibilità di carriera e alla possibilità di conferimen­to di incarichi aggiuntivi”. Ora, anche coloro che si occupano con tenacia e costanza di problem solving devono riuscire a spiegare come si riesca ad “offrire una opportunità”, da un lato, e renderla, dall’altro, obbligatoria per la progressione di carriera! Chiaramente ciascuno di noi è anche libero di rifiutare un'offerta così generosa, ma lo scotto da pagare sarà quello di rinunciare a un’altra opportunità: quella della progressione economica per anzianità di servizio! D’altro canto perché accanirsi nel ricercare una progressione economica, se gli stipendi sono quelli pubblicati a p. 49 del documento buonista? Quella che segue è infatti la tabella dei nostri emolumenti, secondo la visione renziana, davvero idilliaca, del mondo della scuola:



Ci chiediamo da dove Renzi, la Giannini o chi per loro abbiano ricavato una simile tabella?! Dal paese di Bengodi? Dall’ARAN tedesco o da quello inglese? Per quello che ne sappiamo i nostri compensi, fermi all’ultimo contratto stipulato nel 2009, sono invece i seguenti (N.B.: ad essi dovrà essere aggiunta la 13^ mensilità):


Due soli esempi per capire l’abisso esistente tra queste due tabelle. Prendiamo la posizione del docente laureato di scuola sec. di II°, con
anzianità da 0 a 2 anni: tabella buonista: prenderebbe 34.400 euro;
   tabella Aran: prende, in realtà, 20.973 euro! con
anzianità da 35 a…….: tabella buonista: prenderebbe 53.985 euro;
   tabella Aran: prende, in realtà, 32.912 euro!
Anche volendo aggiungere alle cifre del contratto reale (ARAN) la 13^ mensilità, si comprende bene l’abisso esistente tra realtà e fantasia buonista renziana! Ed è così per ogni scaglione o tipologia di lavoratore della scuola!
A quale scopo divulgare una simile, plateale menzogna?

Ma facciamo un passo avanti e chiediamoci per quale motivo dovremmo aderire alle nuove opportunità di carriera offerteci? Come dice il documento, intanto dovremo cogliere quest’attimo fuggente al fine di uscire dal “grigiore dei trattamenti indifferenziati”, che ci hanno obbligato sinora ad “accontentarci delle prospet­tive di carriere fondate sul mero dato dell’anzianità”.
            Queste parole potranno indurre qualcuno a credere che d’ora in avanti l’anzianità di servizio perderà la centralità che ha avuto sinora nella progressione stipendiale, per acquisire uno status subordinato rispetto al nuovo meccanismo di progressione che si intende introdurre, per affiancarlo. SBAGLIATO! La progressione per anzianità verrà semplicemente ABOLITA! NON ESISTERÀ PIÙ!
Essa sarà sostituita erga omnes da un nuovo meccanismo, che definire perverso è dir poco! Esso, infatti, si fonderà su dei crediti, che vengono così delineati:

 

 
Come si può facilmente intuire, da queste nuove disposizioni non solo sparisce l’anzianità di servizio, ma, di conseguenza, anche il lavoro che si svolge all’interno delle classi: un docente appena assunto e uno con 30 anni di servizio alle spalle sono, come ogni buonista sa, perfettamente identici, perché in realtà sono trascorsi, come insegna la relatività einsteniana col “paradosso dei gemelli”, 30 anni di vuoto assoluto!
In compenso, che cosa verrà premiato? In primo luogo la “qualità didattica”, che però il documento si guarda bene dal definire, nonché di spiegare come essa potrà mai essere “certificata” e, ovviamente, anche dall’opportunità di cogliere l’obbligatorietà della formazione “in servizio”; infine, entrano nella lista anche i crediti “PROFESSIONALI”: una definizione accattivante, astutamente utilizzata per definire tutte quelle attività che non hanno proprio nulla a che fare con la didattica reale e che, quindi, non hanno, in realtà, alcun carattere professionalizzante!

Veniamo all’ultima questione. A che cosa servirà accumulare questi crediti? Come abbiamo già detto essi costituiranno l’unica condizione indispensabile per accedere alla progressione economica! Come infatti viene specificato: “Periodicamente, ogni 3 anni, due terzi (66%) di tutti i do­centi di ogni scuola (o rete di scuole) avranno diritto ad uno scatto di retribuzione. Si tratterà del 66% di quei docenti della singola scuola (o della singola rete di scuo­le) che avranno maturato più crediti nel triennio pre­cedente”!
            Quindi, se è vero che, secondo le nuove disposizione, si potrà accedere agli aumenti soltanto grazie all’accumulo di “crediti”, ciò però non sarà comunque vero per tutti, ma solo per il 66% del corpo docente! Ma con quale meccanismo? Con quello che il documento definisce ipocritamente un “incentivo sano” (p. 58). Il 66% degli aventi diritto sarà infatti costituito – rileggiamo – da coloro “che avranno maturato più crediti nel triennio pre­cedente”! In altre parole, “l’incentivo sano” sarà una guerra di tutti contro tutti fra chi accumula più crediti degli altri!! Ma perché  tale incentivo riguarderà “solo” il 66% del totale? Lo spiega lo stesso documento con un candore che fa quasi dimenticare la spudoratezza dell’ammissione: “Le risorse utilizzate per gli scatti di competenza sa­ranno complessivamente le stesse disponibili per gli scatti di anzianità, distri­buite però in modo diffe­rente secondo un sistema che premia l’impegno e le competenze dei docenti. Ciò consente all’operazione di non determinare oneri aggiuntivi a carico dello Stato”!!!
Infatti, dal 2015 saranno totalmente aboliti gli scatti di anzianità automatici, e la nuova normativa premiale entrerà in vigore solo nel 2018!

Quindi, in mancanza di aumenti contrattuali (appena ribadita dal Min. Madia per la P.A.), senza scatti di anzianità, il 66% di volenterosi che si assoggetteranno docilmente o meno al nuovo meccanismo premiale, dovranno comunque attendere il 2018 per vedere i primi 60 eurini in saccoccia, maturati non solo grazie ai punti accumulati, facendo le scarpe agli altri, ma soprattutto grazie ai risparmi di spesa che lo Stato avrà nel frattempo accumulato ai danni di tutto il comparto scuola!

giovedì 4 settembre 2014

L'Inferno di Machiavelli


Vero è che io so che io sono contrario, come in molte altre cose, all’oppinione di quelli cittadini: eglino vorrieno un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa del diavolo; vorrebbono appresso che fosse huomo prudente, intero, reale, et io ne vorrei trovare uno più pazzo che il Ponzo, più versuto che fra Girolamo, più ippocrito che frate Alberto, perché mi parrebbe una bella cosa, et degna della bontà di questi tempi, che tutto quello che noi habbiamo sperimentato in molti frati, si sperimentasse in uno; perché io credo che questo sarebbe il vero modo ad andare in Para­diso: imparare la via dello Inferno per fuggirla.
NICCOLÒ MACHIAVELLI, Lettera a F. Guicciar­dini, 17 maggio 1521 (a cura di G. Inglese, Milano, 1989, p. 290).




Niccolò Machiavelli (1469-1527) iniziò la stesura del Principe nella seconda metà del 1513. I 26 capitoli di cui l’opera si compone furono scritti di getto, tanto che l’opuscolo fu terminato poco prima di Natale, come si evince da una famosa lettera inviata all'amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede[1].
Benché Machiavelli avesse lavorato per lungo tempo alla Seconda Cancelleria del Gonfaloniere Pier Soderini, fiero avversario politico dei Medici, il de Principatibus è dedicato a Lorenzo di Piero dei Medici, nel tentativo di in­graziarsi i ritrovati signori di Firenze, senza però indulgere al servilismo di prammatica nelle dediche dell’epoca. 
Pier Soderini
Lorenzo di Piero de Medici


Papa Leone X

Questo atto va infatti letto come il primo indizio, offerto al lettore, di quel realismo che aveva sempre caratte­rizzato il costume politico del Nostro e che rappresenterà la cifra più signi­ficativa dell’opera appena portata a termine. Il nuovo signore di Firenze, infatti, nipote dell’allora sedente papa Leone X, in virtù della situazione geo-politica di cui godeva senza merito, era strategicamente meglio situato di chiunque altro per mandare a effetto la perorazione con la quale Ma­chiavelli, come vedremo, concluderà l’opera. D’altra parte, la consapevolezza di essere ancora in grado di offrire un valido contributo alla vita politica della sua città aveva esacerbato il suo animo, e aveva a tal punto acuito il peso per l’esilio, cui fu costretto dal ritorno dei Medici, e dall’ingiusto coinvolgimento in un complotto anti-mediceo, che Machia­velli sarebbe stato disposto a qualsiasi compromesso pur di rimettersi in giuoco, nonostante gli amarissimi giorni di prigionia e torture conosciuti. Ma il suo appello, come sappiamo, rimarrà sostanzialmente inascoltato, per il sospetto che ancora pesava sulla sua passata esperienza repubbli­cana, oltre che per l’insipienza del nuovo signore di Firenze.
Il carattere rivoluzionario dell’opera risulta evidente sia sul piano dei metodi che su quello dei contenuti. Essa rappresenta la summa dell’esperienza di acuto osservatore dei fatti politici che Machiavelli aveva “imparata (…) con lunga esperienza delle cose moderne e continua lezione delle antiche”[2]. Egli condurrà, infatti, una indagine di carattere oggettivo sulla realtà per quella che essa è e non per quello che si immagina debba essere dal punto di vista morale: non l’ideale, bensì la “realtà effettuale” costituirà il nucleo intorno al quale la teoria politica doveva d’ora in poi trovare il proprio ancoraggio, sganciandosi – se necessitata – dalla morale comune.
Ma quali sono i temi di cui si occupa concretamente l’opera? Annun­ciandone la stesura, Machiavelli riferirà al Vettori che in essa: “io mi pro­fondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, e’ si man­tengono, perché e’ si perdono”[3]. A tale scopo, l’opera delinea preliminar­mente una tipologia di principati, sorvolando sulle caratteristiche della re­pubblica, delle quali, invece, Machiavelli si occuperà lungamente soltanto nei Discorsi, la cui stesura sarà interrotta appunto per far luogo al Principe.
È noto che per Machiavelli i principati possono configurarsi come ereditari, misti, e nuovi: di ciascuno vengono individuate le caratteristiche salienti. Il Nostro concentra però la sua attenzione sui principati di nuova costituzione, appunto a significare che la creazione di un nuovo principato, che superasse i particolarismi, avvitatisi in una spirale di perenne conflitto, era l’unica via, difficile ma praticabile, per creare anche in Italia uno Stato sufficientemente ampio e potente da respingere le mire espansionistiche degli Stati d’Oltralpe: le “malvietate Alpi”, di cui parlerà il Foscolo nei Sepolcri, costituivano infatti un ostacolo geografico facilmente superabile, poiché gli staterelli italiani non erano in grado di opporre alcun argine politico-militare che impedisse di essere travalicate dai potentati stranieri alla spa­smodica ricerca di facili e succulente prede.
 
Ugo Foscolo
Ma quali erano le difficoltà che un simile progetto doveva fronteg­giare? Per averne un’idea, vediamo come Hegel le riassunse qualche se­colo dopo:
G. W. F. Hegel

In questo periodo di sventura, quando l’Italia correva incontro alla sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che i principi stranieri conducevano per im­padronirsi dei suoi territori, ed essa forniva i mezzi per le guerre e ne era il prezzo; quando essa affidava la propria difesa all’assassinio, al veleno, al tradimento, o a schiere di gentaglia forestiera sempre costose e rovinose per chi le assoldava, e più spesso anche temibili e pericolose – alcuni dei capi di esse ascesero al rango princi­pesco -; quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a sacco ed erano i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione, ci fu un uomo di stato italiano che, nel pieno sentimento di questa condizione di miseria universale, di odio, di dis­soluzione e di cecità, concepì, con freddo giudizio, la necessaria idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in uno stato, con rigorosa consequenzialità egli tracciò la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela e del cieco delirio del suo tempo, e invitò il suo principe a prendere su di sé il nobile compito di salvare l’Italia, e la gloria di porre fine alla sua sventura. (…)

Alla luce di queste considerazioni vedremo che

Il Principe si deve leggere avendo ben presente la storia dei secoli precedente a Machiavelli, e quella dell’Italia a lui contemporanea: allora non soltanto il Principe sarà giustificato, ma esso comparirà come una grandissima e vera concezione, nata da una mente davvero politica che pensava nel modo più grande e più nobile[4].

Il nostro intento sarà appunto quello di enucleare succintamente le li­nee teoriche principali della “grandissima e vera concezione” che l’opera presenta.
Una volta esaminati i modi in cui si acquista uno Stato, Machiavelli passa a trattare dei problemi concernenti il mantenimento dello Stato, ossia tutti gli ‘artifici’ che il Principe deve mettere in atto se vuole mantenersi saldamente al potere. Uno dei problemi che si presentavano a tale riguardo era evidentemente costituito della difesa dello Stato. Per Machiavelli il problema più acuto dell’Italia dell’epoca era quello rappresentato dalle truppe mercenarie, alle quali gli imbelli signori italiani facevano periodicamente ricorso, nel tentativo di ritagliarsi un potere più ampio a discapito del nemico di turno. Sempre pronte a prestare i propri servigi al miglior offerente, e, dunque, a disfare quello che avevano “costruito” al soldo di altri, le truppe mercenarie sono considerate da Machiavelli una vera e propria “ruina d’Italia”[5]


Tale pro­blema potrà risolversi solo quando lo Stato si fonderà su milizie composte esclusivamente dai suoi cittadini, sottoposte al comando del Principe; non a caso la fondamentale preoccupazione di quest’ultimo deve essere ap­punto quella di impadronirsi dell’arte della guerra[6]. Soltanto a queste condi­zioni le milizie cittadine saranno in grado di sopportare tutti i sacri­fici necessari per la difesa della propria città: poiché non sarà più la sete di denaro, bensì l’amor di Patria a sostenere la volontà di combattere.
Tuttavia, la preoccupazione fondamentale del Principe è quella di adottare tutte le strategie necessarie per difendere il proprio potere, una volta impadronitosene. Quella che ci introduce nell’arte della politica è senza alcun dubbio la parte più originale dell’opera. In essa vengono ana­lizzate le qualità del principe con un discorso che ci immette immediata­mente in quella che, come sarà chiarito più avanti, dovremo considerare la sfera morale legittimamente attribuibile all’azione politica. Machiavelli si farà acuto indagatore di questa tematica, alla luce di una nuova prospettiva metodologica, elaborata in radicale rottura con la tradizione.
Affinché la condotta del Principe sia all’altezza del compito, la regola aurea cui si deve scrupolosamente attenere è che egli svolga sempre la sua azione politica avendo ben presente il mondo dell’essere, piuttosto che quello del dover-essere. Da questa premessa fondamentale discende l’esigenza di costruire, senza infingimenti, la figura del principe con spietato realismo. Nel momento in cui dovrà scendere nell’agone politico, il nuovo principe non dovrà essere guidato dall’ossessiva preoccupazione di conformare la pro­pria condotta ai dettami della morale corrente. Sulla base di una conce­zione profondamente pessimistica dell’uomo, e nel convincimento che soltanto uno Stato forte possa costituire un reale rimedio all’iniquità, che è caratteristica costante del comportamento umano, nasce la figura di un principe che sia parsimonioso, piuttosto che liberale; crudele al momento opportuno e che non rifugga neppure dall’assassinio politico, se necessi­tato; che sia temuto piuttosto che non rispettato. In altre parole, in Machia­velli si fa per la prima volta strada l’idea che, data la crudeltà della natura umana, una politica realistica ed efficace non potrà misconoscerne il ruolo, ma dovrà anzi tenerne organicamente conto e, quindi, essa dovrà fondarsi non sull’assenza di regole (morali), né, tanto meno, sull’esclusivo utilizzo di una condotta immorale, come è stato sovente attribuito alla sua teoria, ancorché a sproposito, bensì su regole di condotta proprie, le quali, ap­punto per questo possono anche non coincidere con quelle prescritte dalla morale religiosa: l’essere ‘buono’ può portare alla “ruina” di un principe; al contrario, l’inganno o l’assassinio può salvare uno Stato[7]. Certo, come è facile comprendere, si tratta di questioni di estrema delicatezza, visto che la decisione di operare in un senso piuttosto che in un altro, e la scelta de­gli strumenti più idonei alla conduzione dello Stato, sono lasciati all’arbitrio del singolo principe. Ma è appunto per educarlo alla virtù poli­tica che Machiavelli si propone con i suoi argomenti, disposti secondo le regole della retorica antica e medioevale, all’interno però di un apparato teorico del tutto innovativo.
Diversamente da quanto era accaduto sino a quel momento in campo teorico, Machiavelli prende atto della separazione o autonomia esistente nella realtà quotidiana tra la sfera della politica e quella della morale. Ciò nonostante egli non si preoccupa di escogitare una soluzione teorica che riesca, per così dire, a realizzare un ‘compromesso’ accettabile tra le esi­genze della morale comune e quelle di un’azione politica efficace, né, nel caso in cui questa via si rivelasse impraticabile, di “correggere” gli aspetti immorali della realtà, poiché la sua concezione non discende da presuppo­sti ideali, né, tanto meno, si propone di realizzarli, ma è piuttosto improntata all’interpretazione della Storia nella sua dimensione di vita politica activa, la quale implica una sua propria morale o per dirla in termini più moderni, implica l’autonomia del politico[8].
È evidente che Machiavelli non fosse interessato alla formazione del buon cristiano, che la tradizione umanista considerava invece un presuppo­sto indispensabile per chiunque si proponesse di edificare uno Stato per­fetto, per quanto utopico, poiché l’esigenza primaria che egli persegue è piuttosto quella di formare il buon Principe: se la religione è soltanto un elemento, tra i tanti, che entra in giuoco nella sua educazione, il primo e indispensabile dovere che egli dovrà perseguire sarà invece quello di im­padronirsi dell’arte della politica[9]. Anche per questo motivo, nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, il Nostro polemizzerà aspramente con Sa­vonarola, il quale era incline a dare una impostazione esclusivamente mo­ralistico-religiosa ai problemi politici che angustiavano l’Italia. 

La “ruina d’Italia” non era causata dai peccati (religiosi) degli uomini, come preten­deva Savonarola, ma era piuttosto la conseguenza dei ‘peccati’ politici del Principe, che andavano valutati ben più severamente: se dei primi anche i Principi avrebbero dovuto rendere conto a Dio, una volta giunti al suo co­spetto, sperando nel Suo perdono, dei secondi, invece, il Principe avrebbe dovuto rendere conto anche al suo popolo, poiché su quest’ultimo si ab­batteranno le conseguenze nefaste di una condotta sbagliata. In questo caso, però, egli difficilmente sarebbe sfuggito alla dannazione eterna. Di fronte a questa fattispecie di peccati, lo stesso Savonarola era invece teori­camente disarmato, appunto in virtù della sua sudditanza dottrinale nei confronti della morale cristiana: egli avrebbe potuto invocare soltanto una punizione divina, dal carattere inevitabilmente apocalittico (tale, cioè, da coinvolgere vittime e carnefici), senza tuttavia riuscire a trovare alcun reale rimedio ai mali denunciati. La morale religiosa, infatti, gli impediva di tracciare un preciso discrimine tra gli obblighi della fede e le dure ne­cessità della politica, asservendo questa a quella: non a caso Machiavelli lo definirà un “profeta disarmato”[10], nonostante il notevole acume dimostrato nel prevedere le sventure che incombevano sulla città di Firenze ma, so­prattutto, sulla Chiesa, a causa della dilagante immoralità di cui essa era preda.
Come è immaginato il Principe dal Machiavelli? “Sendo dunque ne­cessitato uno principe sapere bene usare la bestia” egli è visto come il mi­tico centauro, che “debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi”[11].
La capacità di dosare raziocinio e forza, l’astuzia della volpe e la fe­rocia del leone, in una alchimia che si adegui costantemente al mutare delle circostanze, è ciò che, in ultima analisi, costituisce la virtù (politico-morale) del principe, al quale, evidentemente, non è consentito assumere – per rimanere all’interno della stessa metafora – l’atteggiamento di un agnello che offra, senza combattere, le proprie carni ai lupi.
D’altra parte, la dialettica in cui si muove il Principe è quella che si realizza tra le opposte forze della “virtù” e della “Fortuna”, che possiamo tradurre, in prima approssimazione, in opposizione tra razionale e caso: dialettica che verrà analizzata nel cap. XXV.
La virtù del principe consiste nell’essere sì prudente ma, quando il caso lo richiede, anche audace e feroce. Questa condotta gli permetterà di affrontare e volgere a proprio favore almeno quella metà degli eventi che è razionalmente dominabile dagli uomini, sottraendoli all’influsso determi­nante della Fortuna[12]: quest’ultima è riconducibile al caso, nel senso che fini­sce col coincidere con la “qualità dei tempi”, ossia con la situazione storica concreta: soltanto una precisa conoscenza di quest’ultima consentirà di programmare con mag­gior accuratezza l’azione futura. Pertanto, la Fortuna potrà essere domi­nata soltanto da un principe ‘virtuoso’, beninteso, nel significato politico (e non moralistico) dell’aggettivo: soltanto se sarà in grado di volgere a pro­prio vantaggio la ‘qualità dei tempi’, egli potrà sperare di superare le insi­die del caso e, perciò, conquistare il potere, mantenendolo saldamente, al fine di creare uno Stato nuovo. Al contrario, la fortuna “dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle”[13]. Da questa premessa di­scende la conseguenza importante che “Quel principe che si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con le qualità de’ tempi. Ma, se li tempi e le cose si mutano, e’ rovina, perché non muta modo di procedere”[14].
Guido Reni, La Fortuna

Qui si pone, dunque, un problema cruciale: qual è per Machiavelli lo strumento migliore per accordare (o adeguare) la conduzione del governo alla “qualità de’ tempi”? Machiavelli ne parlerà diffusamente soltanto più tardi, cioè nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, dove si imporrà un esplicito rimando all’esperienza della Roma repubblicana: diversamente da Firenze, dove degenerarono in violente lotte di fazione, qui i contrasti po­litici condussero a una evoluzione positiva degli ordinamenti dello Stato. In altri termini, la lotta politica è vista come un bene da preservare, e la forma di governo che può meglio sfruttare le sue caratteristiche è indiscu­tibilmente costituita da un governo repubblicano; diversamente da un go­verno retto dal singolo principe, esso risulta inevitabilmente più duttile, potendo più agevolmente di quello mutare indirizzo politico, adeguandolo al “mutare de’ tempi”. In questo senso, d’altra parte, si intuisce che il Prin­cipe non debba necessariamente essere personificato da un singolo indivi­duo, poiché può altrettanto bene materializzarsi in una istituzione sovrana e di governo che trascenda il singolo.
Francesco Giucciardini
L’apologia dello scontro politico da parte del Machiavelli fece scan­dalo alla sua epoca, tanto da essere stigmatizzata dal Guicciardini, che tuttavia fu indotto a quella presa di posizione verosimilmente a causa della “qualità de’ tempi” in cui fu costretto a vivere: cioè in un’Italia che, non avendo imparato nulla dalla propria Storia[15], continuava ad essere dilaniata dalle lotte di fazione e, perciò, era facile preda delle potenze straniere; esattamente quello contro cui aveva invano tentato di combattere Machia­velli con la sua attività politica, prima, e teorica, poi. Da questo punto di vista, e tenuto conto del fatto che Machiavelli morirà solo poche settimane dopo il sacco di Roma, operato dai Lanzichenecchi al soldo dell’Imperatore nel 1527, non possiamo non ammettere che il suo pro­gramma politico esca comunque sconfitto dalla Storia del suo tempo, senza che ciò diminuisca tuttavia la portata rivoluzionaria del suo progetto teorico. Infatti, non diversamente da quanto accadrà al marxismo, tutte le teorie politiche, specie quelle che più consapevolmente pongono l’esigenza di aderire alla realtà, finiscono inevitabilmente col pagare pegno al dover-essere, in quanto non potranno mai esaurire l’universo empirico dei fatti, tentando di dominarlo teoricamente[16]. L’unità italiana, che costitui­sce lo scopo fondamentale de Il Principe, esprimeva, purtroppo, ancora e soltanto un ideale retorico, poiché neppure il metodo realistico, così attentamente perseguito, permetterà a Machiavelli di individuare la strada che avrebbe condotto alla sua realizzazione concreta. D’altra parte, ma questo Machiavelli non poteva saperlo, dopo la scoperta dell’America, il centro della Storia del Mondo si stava ormai spostando verso l’altra sponda dell’Atlantico…
Il Sacco di Roma

Il cap. XV, dal titolo: “Delle cose per le quali gli uomini e, in parti­colare, i principi sono lodati o vituperati”, costituisce senza alcun dubbio il centro nevralgico di tutta l’opera. In apertura Machiavelli esplicita la ne­cessità di rimettere in discussione il modo in cui la tradizione umanista aveva inteso la teoria politica, e dunque parte dall’esigenza, che egli sentì vivissima, di marcare nettamente la differenza teorica esistente tra sé e i propri predecessori.
Egli vuole scrivere delle qualità e dei modi che un principe deve as­sumere nei confronti dei propri sudditi. Tuttavia Machiavelli si accinge a farlo, come scrive, “partendomi massime… dagli ordini altrui”[17]. In altri termini, egli avverte l’esigenza di distinguere radicalmente il proprio me­todo di indagine da quello adottato dai suoi predecessori, benché non escluda che, ripudiandone l’eredità ‘teorica’, potrà essere considerato un presuntuoso.
In che cosa Machiavelli si distingue dagli altri e, soprattutto, per quale motivo considera questa esigenza così urgente da attuare, tanto da ri­schiare anche l’insulto? La risposta a questa domanda ci catapulterà nel cuore stesso del problema, permettendoci finalmente di comprendere quale sia la novità teorica che Il Principe esibisce.
A differenza dei suoi predecessori, ma non diversamente da quanto lo stesso Principe, ammaestrato dalla sua opera, dovrebbe imparare a fare, Machiavelli intende “andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”[18]. Con questa affermazione Machiavelli rimette ra­dicalmente in discussione tutta la tradizione precedente. 
Raffaello Sanzio, Platone (da La scuola di Atene)

Infatti, i filosofi antichi, come, ad esempio, Platone, o i trattatisti formatisi in ambiente umanistico “si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti in vero essere”[19]; essi, in altri termini, erano capaci di immaginare un mondo ideale, “tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere”[20], da non essere in alcun modo in grado di dirci come il mondo reale potesse concretamente trasformarsi in quello da loro immagi­nato: d’altra parte, è appunto questa la caratteristica saliente di ogni utopismo. Come è facile intuire, se il problema fosse circoscritto, come era tipico della tradizione precedente, al solo piano teorico, questa premessa non provocherebbe conseguenze particolarmente rilevanti sul piano pratico. Se qualcuno ardisse invece mettere in pratica tali ricette, questa volta le con­seguenze sarebbero gravissime sul piano strettamente politico, perché “colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua”[21]. Ed è appunto per evitare que­sti pericoli che agli occhi di Machiavelli si impone una radicale resa dei conti con la tradizione. Machiavelli intende perciò parlarci con “freddo realismo” del mondo reale: sia sul piano teorico che su quello propria­mente politico, con l’inusitato tentativo di riunire, per la prima volta, teoria e prassi[22]. Da questa premessa empirica, interpretata alla luce degli exem­pla tratti dalla storia antica e moderna, emerge, cioè, la sintesi costituita dalla sua nuova teoria politica, che è indissociabile da una nuova considerazione politica della morale. Essa servirà non solo a procedere oltre l’astrattezza teorica dei suoi predecessori, ma soprattutto a sostenere concretamente il Principe nell’adeguamento della propria condotta, allo scopo di rovesciare la Fortuna e le passioni umane che vi sono indissolubilmente coinvolte, per condurre in porto il suo progetto. Quale?
Rinviamo la risposta a questa domanda a fra poco, concentrando, in­vece, ancora una volta la nostra attenzione sulla questione del “metodo”.
Come abbiamo visto, l’esigenza di un rinnovamento metodologico si pone non soltanto per motivi teorici, solo apparentemente astratti, ma so­prattutto perché, nel passaggio dalla teoria alla pratica, cioè all’azione po­litica concreta che un principe virtuoso dovrebbe adottare, chi rimane le­gato all’ideale, invece di attenersi alle concrete vicende che la realtà pro­pone, “troverrà qualche cosa che parrà virtù e seguendola sarebbe la ruina sua”[23]. In altri termini, Machiavelli sembra dirci che se nella vita politica attiva ci si dovesse attenere all’applicazione coerente, quanto pedissequa, dell’ideale cristiano, che prescrive di perseguire sempre il “bene”, rifug­gendo il male, l’esito inevitabile sarà la sconfitta, a causa dei “tanti che non sono buoni”[24]. Contrariamente a quello che il comune buon senso re­puta ovvio, Machiavelli era infatti convinto che la Fortuna si accanisse contro i ‘buoni’, i quali pretendevano mantenere comunque intatta la loro purezza d’animo, nonostante l’impegno nella vita politica, favorendo invece i progetti dei virtuosi, cioè di coloro la cui audacia politica e com­portamentale era invariabilmente bollata come immorale. È, perciò, evi­dente che una visione del genere mal si conciliasse con la morale corrente, e anzi rendeva inevitabile un capovolgimento dei suoi comandamenti o un autonomizzarsi da essi. Ma la questione è appunto questa: tale capovolgi­mento va perseguito sempre e comunque?
A questo punto viene avanzata da Machiavelli una considerazione che, come vedremo, avrà delle importanti ripercussioni ai fini di una ade­guata interpretazione del suo pensiero. Infatti, egli aggiunge che sarebbe cosa “laudabilissima che il principe conservasse tutte le qualità buone” - quali sono prescritte al buon cristiano -, ma ciò non è realisticamente pos­sibile, “per le condizioni umane che non lo consentono”[25]. In altre parole, Machiavelli sembra dirci che il Principe, piuttosto che rendere (sterile) te­stimonianza delle proprie “qualità buone”, come la trattatistica politica e la retorica del tempo auspicavano per ciascuna delle sue decisioni di go­verno, deve invece concentrarsi nella comprensione della realtà effettuale, al fine di escogitare il modo migliore per intervenirvi: per questo motivo egli non potrà disdegnare il ricorso a quelli che la morale corrente consi­dera dei “vizi”, quando lo reputerà indispensabile per mantenere e rendere più saldo il proprio controllo sullo Stato. In altri termini l’uso della forza, dell’astuzia, del male, è per Machiavelli uno strumento realisticamente ir­rinunciabile tra i tanti che la lotta politica richiede. Se il Principe sarà in grado di utilizzarli oculatamente, per conseguire il proprio obiettivo, egli dovrà a giusto titolo essere considerato un Principe virtuoso, capace di adottare le decisioni più sagge al momento opportuno.

Come abbiamo visto, in queste frasi emerge la visione pessimistica che Niccolò ebbe “delle condizioni umane”, cioè il suo fermo convinci­mento del carattere bestiale della natura umana. Precisamente da questa premessa antropologica egli fa discendere la necessità di distinguere tra morale e politica, appunto perché l’esigenza che guidava Machiavelli – a cui si dedicò la sua “mente davvero politica” - non era quella di creare un’umanità nuova o uno Stato ideale, bensì di realizzare un progetto poli­tico più circoscritto, ma non per questo meno ambizioso, date le circo­stanze: il progetto del Principe è infatti quello di costruire un’Italia libera dai barbari – spagnoli, francesi e tedeschi, le cui rivalità dominavano la scena politico-militare del Belpaese -, unificandola sotto un’unica autorità. Benché la visione di un Machiavelli cinico o immorale sia ormai talmente diffusa da essersi trasformata in un luogo comune, nondimeno essa costi­tuisce una interpretazione erronea, ancorché tradizionale, che ha profon­damente segnato la recezione del suo pensiero politico nel corso dei se­coli[26].
Il Nostro, infatti, non è pregiudizialmente contrario alla morale cri­stiana: egli ha semplicemente compreso che in un mondo in cui vige la sete di ricchezza e di potere, la morale del “porgi l’altra guancia” difficil­mente convive con un’azione politica efficace e, quindi, il rispetto dei suoi dettami non è sempre auspicabile in campo politico. Se, da un lato, Ma­chiavelli è convinto che, nella politica attiva,

uno principe, e massimo uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso ne­cessitato, per mantenere lo stato, operare contro la fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione[27],

d’altra parte, non per questo egli giunge ad auspicare che quei “vizi”, talora indi­spensabili, siano estesi anche agli altri ambiti della vita quotidiana. Al contrario, la preoccupazione di Machiavelli è che il Principe “abbia uno animo disposto a volgere secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose co­mandano, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene potendo, ma saper entrare nel male, necessitato”[28].
Se le condizioni politiche vigenti costringono a farlo, il Principe deve essere capace di appropriarsi anche degli strumenti moralmente riconduci­bili alla sfera del male per realizzare il proprio obiettivo politico. Il ricono­scimento di questa dura necessità non comporta, tuttavia, lo stravolgi­mento di tutti i valori, tale da indurre a cambiare di segno il male, tramu­tandolo in bene, poiché anche per Machiavelli è dubbio che si possa dire bene del male. In altre parole, come scrive Gilbert, per Machiavelli

l’azione politica non può essere mantenuta nei limiti della morale. Pur indicando che una linea di condotta amorale può essere non di rado la più efficace adottabile in una qualsiasi situazione, egli non mostra mai di preferire le azioni amorali alle morali: Machiavelli non patrocina il male per partito preso: non desidera rovesciare ogni va­lore morale (…). Il punto centrale della sua filosofia politica è che l’uomo deve sce­gliere: può vivere discosto dalle vicende politiche e seguire i dettami della morale cri­stiana; ma se entra nella ‘vita activa’ della politica deve agire secondo le leggi di que­sta[29].

Voltando finalmente le spalle all’ideale, e rimanendo saldamente an­corato alla “realtà effettuale”, possiamo dire che Machiavelli fondi la scienza della politica nel momento in cui realizza quanto indispensabile sia abbandonare la strada, già sperimentata come improduttiva e velleitaria, dei profeti utopisti o disarmati. Il suo debito intellettuale nei confronti della tradizione umanistica non è, però, del tutto assente: dobbiamo tutta­via circoscriverlo alla perizia dispiegata nell’utilizzo della retorica antica per modulare il proprio discorso, allo scopo di convincere anche emotiva­mente il suo pubblico, in particolare il Principe, come farà esplicitamente nella perorazione all’Italia dell’ultimo capitolo.
Tuttavia, in radicale antitesi a una tradizione retorica sempre tesa a dimostrare la ‘bontà’ delle proprie argomentazioni attraverso la sottoli­neatura della loro ‘moralità’, Machiavelli trae invece l’imperativo di sepa­rare morale e politica dalla necessità di rimanere saldamente ancorato alle regole dettate dalla ‘realtà effettuale’, ma non per contrapporle, bensì per poter scegliere quali tra esse sia la più opportuna da adottare al mutare delle circostanze. È, pertanto, la coerenza tra metodo di indagine e conte­nuti (la condotta ‘virtuosa’ del principe), entrambi fondati sulla “realtà ef­fettuale”, ciò che fa di Machiavelli un antesignano della scienza politica moderna: la logica della teoria politica deve in altri termini essere “co­mandata” dalla logica dei fatti, emancipandosi, lì dove è indispensabile, dalla logica imposta dalla morale cristiana, che rende spesso impossibile adattare le regole che ne sono a fondamento a “e’ venti della fortuna e la variazione delle cose”[30].
È sufficiente sottolineare questo aspetto fondamentale della sua con­cezione dell’autonomia della politica, anzi, della fondazione di essa, per considerare il Nostro uno dei più eminenti pensatori della politica di tutti i tempi, benché – e anche questo va riconosciuto - la sua perorazione non abbia trovato un esito pratico po­sitivo, verosimilmente a causa del fatto che a una strategia politica “dall’alto”, tesa com’era a enucleare le caratteristiche del Principe “vir­tuoso”, egli non seppe coniugare una politica “dal basso”, che riuscisse, cioè, a ‘regolare’ istituzionalmente lo scontro politico: essa sarà infatti ab­bozzata soltanto nei Discorsi[31].
D’altra parte, per ritornare al problema della morale, affrontandolo, questa volta, dal punto di vista tradizionalmente ritenuto ad esso più con­facente, cioè da quello della religione, si deve ammettere che una politica esplicitamente basata sulla morale cristiana non sempre si sia dimostrata meno feroce di una politica dichiaratamente immorale. 
Papa Alessandro VI Borgia
Il Valentino
Basti pensare all’esempio che lo stesso Machiavelli ebbe sotto gli occhi: Papa Alessan­dro VI Borgia, col seguito dei suoi temuti figli, e il Savonarola, che non fu certo tenero nei confronti dei suoi oppositori, fustigando senza tregua i co­stumi corrotti dei fiorentini, fino al punto di mandare al rogo i libri e le opere d’arte ritenute licenziose nei famosi falò delle vanità. Ma non possiamo certo dimenticare la trave costituita dal conflitto tra potere temporale e potere spirituale della Chiesa, che angustiava l’Europa sin dal momento della sua nascita, ed era ancora lungi dall’aver esaurito tutte le sue più nefaste conseguenze: in particolare in Italia, quella di essere il più tenace baluardo contro la sua unificazione.
Mantenendosi in un orizzonte esclusivamente terreno (o, come sug­gerisce Viroli, all’interno di una concezione religiosa della Patria, allora molto diffusa a Firenze), la moralità della visione politica del Machiavelli si esplicita nel progetto la cui realizzazione è demandata al Principe: l’unità e l’indipendenza della Patria, alla cui perorazione sarà dedicato il XXVI capitolo. Anche se indirettamente espressa nei continui richiami all’esperienza storica e alla cronaca politica della sua epoca[32], tuttavia è sol­tanto nella perorazione finale, cioè nel luogo in cui Machiavelli abban­dona più vistosamente l’andamento ‘scientifico’ della sua trattazione, per perorare la causa di un dover-essere tanto agognato, ma mai realizzato, che dobbiamo vedere più direttamente espresso l’invito, rivolto al Principe, a forzare, sotto l’urto delle condizioni oggettive, anche i dettami più sacri della morale corrente, pur di realizzare questo nobile compito. In altre pa­role, soltanto alla luce di questo ‘invito’ le “condizioni umane” acquistano il valore di oggettiva giustificazione della condotta “virtuosa” del Principe. In assenza di una tale sanzione, la teoria di Machiavelli suonerebbe effetti­vamente giustificazione di una machiavellica brama di potere per il perse­guimento del proprio “particulare”: dunque, se è vero che nella vita poli­tica ordinaria “il fine giustifica i mezzi”, ciò non è però vero per il Prin­cipe di Machiavelli, per il quale, infatti, l’obiettivo non è, né deve essere, il potere per il potere, ma ben altro. Il potere di disporre liberamente delle regole comunemente accettate della morale è il solo mezzo realisticamente a disposizione del Principe per realizzare, in un mondo di lupi, “l’intenzione alta” dell’indipendenza della Patria: l’unico scopo moral­mente rilevante dal punto di vista politico, non certo da quello religioso. Un obiettivo che non soltanto la miope politica dei signorotti italiani, ma anche l’immoralità politica della Chiesa aveva contribuito ad allontanare, con il ricorso a qualsiasi mezzo, comunque illecito sia dal punto di vista del politico Machiavelli, ma, in quest’ultimo caso, soprattutto da quello squisitamente morale. Infatti, la spasmodica difesa del potere temporale, che aveva caratterizzato la storia dello Stato pontificio, almeno dalla Con­stitutum Costantini in poi, significò non solo l’uso della violenza dispie­gata nei confronti dei propri nemici (fra cui lo stesso Savonarola), ma, so­prattutto, il dilagare della corruzione dei costumi della Chiesa. D’altra parte, la reazione protestante alla degenerazione della Chiesa cattolica era ormai alle porte (1517)[33]

In altri termini, la massima del “fine che giustifica i mezzi” è legitti­mamente attribuibile soltanto a un Principe che persegue la conservazione del potere a proprio esclusivo vantaggio, quando cioè i “mezzi” si tramu­tano inopinatamente in “fini”: quindi è legittima soltanto per un Principe peccatore, nel significato politico che anche Machiavelli avrebbe conferito a questo termine all’interno della sua laicissima religione della Patria: per­ciò, soltanto cancellando l’ultimo capitolo del Principe si potrebbe pensare che quella regola abbia per Machiavelli un valore regolativo assoluto. Se invece si insistesse nell’attribuire quella massima gesuitica a Machiavelli si incorrerebbe in un grossolano travisamento del suo pensiero, palesando, al contempo, un pregiudizio moralistico nei confronti della sua teoria poli­tica. La perorazione finale all’Italia dimostra, se si vuole, che Il Principe non è riducibile al manualetto di un libertino ante litteram, disposto ad utilizzare qualsiasi mezzo pur di sedurre il potere, allo scopo di soddisfare esclusivamente le proprie voglie; esso non è come scrive Hegel, lo “spec­chio dorato presentato ad un ambizioso oppressore”, poiché Machiavelli – possiamo ben dirlo! - è il teorico della libertà, e “la libertà è possibile solo là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno Stato”[34].
Come scrive De Grazia, infatti, la religione di Machiavelli è quella che vede un Dio politico che perdona i principi, purché siano pronti a utilizzare qualsiasi mezzo, se necessitati, per raggiungere lo scopo di assicurare li­bertà e indipendenza alla propria Patria[35]. O, detto con le parole di Hegel:

Già il fine che Machiavelli si prefisse, di innalzare l’Italia a uno stato, viene frainteso dalla cecità, la quale vede nell’opera di Machiavelli nient’altro che una fon­dazione di tirannia, uno specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore. Ma se anche si riconosce quel fine, i mezzi – si dice – sono ripugnanti: e qui la morale ha tutto l’agio di mettere in mostra le sue trivialità, che il fine non giustifica i mezzi, ecc. Ma qui non ha senso discutere sulla scelta dei mezzi, le membra cancrenose non pos­sono essere curate con l’acqua di lavanda. Una condizione nella quale veleno ed as­sassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia[36].

In altri termini, il principe è legittimato a commettere dei ‘peccati’, per i quali un comune mortale sarebbe invece inesorabilmente condannato all’Inferno. Non a caso Hegel afferma:

L’Italia doveva essere uno stato (…): questo universale è ciò che Machiavelli presuppone, questo egli esige, questo è il suo principio per rimediare alla miseria del suo paese. Posto questo, il comportamento del principe si configura in tutt’altro modo. Ciò che sarebbe riprovevole se esercitato da un privato contro un privato, o da uno stato contro un altro stato o contro un privato, è adesso una giusta pena. Promuo­vere l’anarchia è il peggiore delitto, anzi, l’unico delitto che si possa commettere contro uno stato; ad essa si possono ridurre tutti i delitti che lo stato è tenuto a repri­mere, e coloro che aggrediscono lo stato non indirettamente, come gli altri delin­quenti, ma direttamente, sono i criminali – e lo stato non ha dovere più alto che quello di conservare se stesso e di debellare nel modo più sicuro tali criminali[37].

Oggi si potrebbe anche sorridere di fronte a questa condanna senza appello dell’anarchia. Ma l’anarchia contro cui Machiavelli combatteva, e di cui anche Hegel perorava la distruzione, non era certo identificabile con la tardo-ottocentesca rivolta del singolo contro la onnipervasiva presenza dell’autorità, in primis quella dello Stato, ma, tutt’al contrario, era quella che, per riprendere le parole di Hobbes, potremmo riassumere nella famosa formula del “bellum omnium contra omnes”, cioè della violenza dispiegata al solo scopo di affermare il diritto del più forte. Era contro questo stato di natura imperante tra gli staterelli italiani, e di cui le popolazioni italiche erano la tradizionale vittima sacrificale, che si rendeva necessario erigere un argine potente: uno Stato unitario alla cui fondazione teorica Machia­velli profuse tutta l’energia del suo ingegno. Al suo appello, però, i con­temporanei rimasero completamente sordi: e non possiamo nasconderci che sia appunto questo uno dei problemi più importanti che una teoria po­litica realistica dovrebbe concorrere a risolvere. 
Ma è ancora una volta Machiavelli ad aprirci la strada, per una nuova esplorazione. È infatti evi­dente che la perorazione all’Italia, inserita al termine di un’opera che inau­gura l’indagine ‘scientifica’ della materia politica, è un esplicito esempio di propaganda: ma è appunto l’arma della propaganda che Machiavelli non poté considerare compiutamente come parte costitutiva della sua teoria, poiché ancora al di fuori della portata della sua epoca. Certo la considera­zione della religione come instrumentum regni era ben presente al Ma­chiavelli; ma tale strumento era troppo compromesso e logorato – in quel momento storico - per poter fungere da adeguata leva ideologica per la realizzazione di un progetto politico che, per quanto concreto, richiedeva comunque di essere sorretto anche da una poderosa spinta ideale, diversa­mente da quanto avverrà di lì a poco nei Paesi nordici, grazie al Protestan­tesimo. Machiavelli sentì acutamente l’esigenza di una profonda riforma morale della Chiesa e della religione, affinché si realizzasse pienamente quella religione (civile) della libertà e dell’amor di Patria, il cui esempio più fulgido era ai suoi occhi costituito dalla Repubblica romana. 
Almeno dall’Illuminismo in poi, con la nascita della “opinione pubblica” e, dunque, nella prospettiva di un progressivo allargamento della partecipazione delle “masse” alla lotta po­litica, iniziata effettivamente soltanto con la Rivoluzione francese, nessuno potrà più sottovalutare il ruolo della propaganda per l’allestimento di una tattica efficace per la conquista e il mantenimento del potere. Sarà infatti questo uno degli strumenti di cui i patrioti italiani si doteranno per dar vita, e condurre in porto, finalmente, il progetto di Machiavelli, realizzando una delle più importanti pagine della storia italiana: l’epopea risorgimentale.





[1] Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, op. cit., pp. 192-96. Oltre a evidenti motivi di amicizia, la ragione di questo annuncio va probabilmente cercata anche nel fatto che, attraverso il Vettori, Machiavelli sperava di poter diffondere la conoscenza del suo opuscolo anche presso la corte papale. E’ il caso di sottoli­neare che le opinioni degli studiosi sui tempi di stesura dell’opera divergono radicalmente.
[2] N. MACHIAVELLI, Il Principe, con uno scritto di G. W. F. Hegel, a cura di U. Dotti, Milano 200412, p. 72. Ciò basti a riconoscere quanto la biografia di Machiavelli sia indispensabile a illuminare la teoria, poiché quest’ultima è, a ben vedere, la sintesi della sua attività politica presso la Seconda Cancelleria della repub­blica fiorentina.
[3] Lettera a Francesco Vettori, cit., p. 195.
[4] G. W. F. HEGEL, Costituzione della Germania, in Scritti politici, tr. it. di C. Cesa, Torino, 1972, p. 101. È da notare come questa “riabilitazione” sul piano etico del pensiero di Machiavelli da parte di Hegel, aprirà una nuova stagione di studio del suo pensiero, in particolare in Italia.
[5] Il Principe, cap. XII, p. 145.
[6] Ivi, cap. XIV, p. 160.
[7] Ivi, p. 164.
[8] Una morale che tuttavia si avvicina molto di più alla religione antica che a quella dei moderni. Infatti, come lo stesso Machiavelli ebbe a scrivere nei Discorsi: “La religione antica… non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti, e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione e dispregio delle cose umane: quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo, e in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi…” (N. MACHIAVELLI, Discorsi II, 2 ( Opp. 149b).
[9] D’altra parte, non possiamo fare a meno di sottoscrive le parole di G. INGLESE, secondo le quali quello di Machiavelli è l’”inaudito esperimento che consiste nel porre il mondo della lotta politica come ‘effettuale’ oggetto del pensiero, come materia di un lavoro intellettuale specializzato. Non filosofo del diritto costitu­zionale; non insegnante di retorica in parlamento; ma esperto nell’arte della guerra per il potere e ragionatore di quelle ‘vittorie e perdite’: il politico di nuovo modello non è altri che l’autore del Principe” (in N. MA­CHIAVELLI, Lettere…, op. cit., Introduzione di G. INGLESE, p. 10). Machiavelli non poté fare altro che dare forma teorica a quella che sentiva come un’urgenza pratica inderogabile: l’unità d’Italia, che chi è im­merso nella pratica poteva anche non avvertire. Machiavelli è dunque alla ricerca di un Principe che intenda ciò che egli scrive, offrendogli uno scopo, gli strumenti per attuarlo, una motivazione ideale per condurre in porto con la massima fermezza quello scopo.
[10] Il Principe, op. cit., p. 104.
[11] Ivi, cap. XVIII, pp. 176-7.
[12] “Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi” (Cap. XXV, p. 220).
[13] Ivi, p. 221.
[14] Ivi, p. 223.
[15] È nota la differente prospettiva esistente a questo proposito tra Machiavelli e Guicciardini. Machiavelli, pur essendo perfettamente consapevole del fatto che gli uomini comuni difficilmente imparino qualcosa dalla storia passata, “Perché gli uomini sono molto più presi da le cose presenti che da le passate” (ivi, cap. XXIV, pp. 217-18), fonda, tuttavia, la possibilità di una teoria non utopica, ma realistica (o, come oggi diremmo: scientifica) della politica, e, di conseguenza, anche la possibilità di incidere sulla realtà da parte del Principe (dialettica virtù/fortuna), appunto sulla esemplarità della Storia e, dunque, sulla ripetitività dei fatti storici: per questo motivo il futuro è in una certa misura prevedibile. Tale possibilità sarà invece negata recisamente dal Guicciardini, sia pure, significativamente, al termine di una lunga evoluzione teorica: egli giungerà infatti ad ammettere che gli eventi storici sono unici e irripetibili e, perciò, imprevedibili, tanto da affermare che “È fallacissimo el giudicare per gli esempli, perché, se non sono simili in tutto e per tutto, non servono” (Ri­cordi, 117).
[16] Questa affermazione necessita di una breve spiegazione, che ci permette, peraltro, di collegarci alla nota precedente: per dirla nel linguaggio delle Annales, di evidente derivazione marxista, la storia evenemenziale può anche apparire ripetitiva (ed entro certi limiti lo è effettivamente), ma è la lunga durata che lentamente e inesorabilmente modifica la struttura sottostante sulla quale gli eventi poggiano. Se ci si passa l’analogia: la Storia è un’auto che ad ogni giro di pista cambia, appunto perché è in corsa. In questo senso, perciò, Machia­velli e Guicciardini hanno entrambi torto e, allo stesso tempo, entrambi ragione.
[17] Ivi, p. 164.
[18] Ivi.
[19] Ivi.
[20] Ivi.
[21] Ivi.
[22] Recentemente il filologo M. Martelli ha avanzato l’ipotesi, assai seducente, che parte del testo del Prin­cipe, in particolare il capitolo finale, con l’esortazione a liberare l’Italia dai barbari, cioè da francesi e spa­gnoli, fu composta in occasione di un avvenimento decisivo, la preparazione di un colpo di Stato da parte di Lorenzo il giovane, già duca di Urbino e principe di Firenze, per creare un regno che, con un papa mediceo a Roma, sarebbe andato dai confini del Regno di Napoli al Ducato di Milano. Nell’incontro di Montefiascone Leone X non dette il suo assenso e il progetto abortì. Così venne messa la sordina a tutto l’apparato media­tico, diremmo oggi, di cui Il Principe di Machiavelli era la punta di diamante.
[23] Ibidem, p. 166.
[24] Ibidem, p. 164. È facile vedere qui il motivo per il quale Machiavelli abbia tanto affascinato i marxisti (so­prattutto italiani): alla lotta tra bene e male è infatti sufficiente sostituire la lotta di classe.
[25] Ivi, p. 165. Perché, come scrive Machiavelli, “degli uomini si può dire questo, generalmente: che sieno in­grati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli come di sopra dissi, quando el bisogno è disco­sto; ma quando ti si appressa si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovan­dosi nudo di altre preparazioni, ruina” (ivi, pp. 171-72). Tuttavia, è bene tenere presente che per Machiavelli “una delle più importanti materie che abbi uno principe” è quella “e satisfare al populo” (ivi, p. 185).
[26] Il machiavellico “fine che giustifica i mezzi” è una frase che sarà vano cercare all’interno dell’opera. Il “Cum finis est licitus, etiam media sunt licita” lo dobbiamo infatti al gesuita H. BUSENBRAUN, che, nella sua Teologia morale (1650), grazie a questa polemica, quanto arbitraria sintesi, fece assurgere il pensiero di Machiavelli a simbolo degli errori a cui portava la libertà di pensiero che aveva caratterizzato il Rinasci­mento. Il tentativo dei gesuiti era evidentemente quello di combattere il successo che le idee del Nostro in­contravano presso gli intellettuali europei, peraltro sempre più persuasi dell’esigenza di una profonda riforma morale della Chiesa.
[27] Il Principe, cap. XVIII, pp. 178-79.
[28] Ibidem, p. 179.
[29] In F. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, tr. it. di F. Salvatorelli, Torino, 1970 , pp. 168-9.
[30] In questo senso si comprende l’analogia e, allo stesso tempo, la differenza nell’atteggiamento che Machia­velli e, un secolo dopo di lui, Galilei adotteranno a proposito del rapporto tra scienza e fede. Infatti, non di­versamente da Machiavelli, Galileo comprese che il metodo di indagine deve sforzarsi di riprodurre la logica specifica del proprio oggetto di indagine. Per Galileo il libro della Natura va letto adottando quello che lui individuò come il linguaggio specifico di essa: quello matematico. Tuttavia, trovandosi a vivere e operare in piena Controriforma, a differenza del grande fiorentino, il grande pisano fu sempre attento a sottolineare l’unità di fondo tra scienza e religione: pur essendo caratterizzate da linguaggi diversi, Natura e religione di­scendono indiscutibilmente entrambe da Dio. Come sappiamo, però, ciò non sarà sufficiente a salvarlo dalla condanna da parte dell’Inquisizione.
[31] Come è noto, sarà A. Gramsci a dedicare, nei suoi Quaderni dal carcere, gran parte delle sue energie intellet­tuali all’elaborazione di una strategia “dal basso” per la conquista del potere politico, anche sulla scorta del Principe, ovviamente in un quadro teorico e storico del tutto mutato: la ricostruzione della tattica del Partito Comunista (il novello Principe), dopo la débâcle subita ad opera del fascismo, mantenendosi però sempre fedele al metodo di Machiavelli: la stretta unità di teoria e prassi che, d’altra parte, costituirà la pietra di paragone, il criterio di “scientificità”, dell’indagine propria del materialismo storico-dialettico o, per dirla con lo stesso Gramsci, della “filosofia della prassi” (si cfr. A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, Roma, 1975).
[32] Basti pensare all’esame della condotta del Valentino, alla quale sarà dedicato il capitolo settimo, e del quale Machiavelli scrive: “Raccolte io adunque tutte le azioni del duca non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme di altri sono ascesi allo im­perio, perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia” (Il Principe, p. 118).
[33] Sarà appunto lo scisma protestante, col suo seguito di guerre di religione, a mettere la parola fine, in Eu­ropa, al potere temporale della Chiesa di Roma.
[34] G. W. F. HEGEL, tr. it. cit., p. 104.
[35] In ID., Machiavelli all’Inferno, cit.. A questo proposito Viroli commenta che il De Grazia non avrebbe tutta­via “visto che Machiavelli trova il suo Dio nella tradizione del cristianesimo repubblicano che viveva a Firenze” (M. VÌROLI, Il Dio di Machiavelli e il problema della morale dell’Italia, Bari, 2005, p. VIII). Con questa affermazione Viroli vuol sottolineare che la concezione teorica del Machiavelli è perfettamente coe­rente (e perciò affatto in contrasto) con quella cristiana, come abitualmente si crede. Tuttavia, se ciò è, come abbiamo già rilevato, entro certi limiti vero, resta comunque da stabilire in quale rapporto si trovi la morale cristiana allora vigente con il “cristianesimo repubblicano” fiorentino. A questo proposito crediamo che le parole di Machiavelli sulla religione antica (cfr. n. 8, supra) costituiscano un contributo decisivo per indiriz­zarci nella giusta direzione interpretativa. Infatti, l’opposizione con la Chiesa diviene radicale in ambito an­tropologico. Se per la Chiesa l’uomo, creato da Dio, è buono per natura, ed è la Storia a pervertirlo (dal pec­cato originale in poi), viceversa per Machiavelli gli uomini sono cattivi per natura ed è piuttosto la costru­zione degli ordinamenti politici e civili (la Storia, appunto) ad educarlo progressivamente.
[36] HEGEL, tr. it. cit., p. 105. È da notare che la “cecità” cui qui si riferisce Hegel è ascrivibile agli idéologues illuministi, che, in preda agli stessi pregiudizi che intendevano combattere, fecero acriticamente propria la “interpretazione” gesuitica, e, quindi, imbarazzati dal ‘machiavellismo’ morale erroneamente attribuito al Nostro, essi lo trasfigurarono in una surrettizia denuncia dell’ipocrisia del potere. In altri termini da questa interpretazione discende la figura di un Machiavelli antesignano dell’Illuminismo, capace di denunciare, per dirla con un famoso verso di Foscolo, “di che lagrime grondi e di che sangue” il potere: affermazione estre­mamente efficace sul piano poetico, ma tutt’altro che corretta da quello teorico, poiché implica una acritica condanna moralistica della spregiudicatezza del potere politico, che non avrebbe certo potuto trovare con­corde il Nostro, poiché, al contrario, egli fu sempre pronto a esaltarla come una delle maggiori virtù del Prin­cipe.
[37] Ivi.