Vero
è che io so che io sono contrario, come in molte altre cose, all’oppinione di
quelli cittadini: eglino vorrieno un predicatore che insegnasse loro la via del
Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa
del diavolo; vorrebbono appresso che fosse huomo prudente, intero, reale, et io
ne vorrei trovare uno più pazzo che il Ponzo, più versuto che fra Girolamo, più
ippocrito che frate Alberto, perché mi parrebbe una bella cosa, et degna della
bontà di questi tempi, che tutto quello che noi habbiamo sperimentato in molti
frati, si sperimentasse in uno; perché io credo che questo sarebbe il vero modo
ad andare in Paradiso: imparare la via dello Inferno per fuggirla.
NICCOLÒ
MACHIAVELLI, Lettera a F. Guicciardini,
17 maggio 1521 (a cura di G. Inglese, Milano, 1989, p. 290).
Niccolò Machiavelli (1469-1527) iniziò la stesura del Principe nella seconda metà del 1513. I 26 capitoli di
cui l’opera si compone furono scritti di getto, tanto che l’opuscolo fu terminato
poco prima di Natale, come si evince da una famosa lettera inviata all'amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso la Santa Sede[1].
Benché
Machiavelli avesse lavorato per lungo tempo alla Seconda Cancelleria del Gonfaloniere
Pier Soderini, fiero avversario politico dei Medici, il de Principatibus è dedicato a Lorenzo di Piero dei Medici, nel
tentativo di ingraziarsi i ritrovati signori di Firenze, senza però indulgere
al servilismo di prammatica nelle dediche dell’epoca.
Pier Soderini |
Lorenzo di Piero de Medici |
Papa Leone X |
Questo atto va infatti
letto come il primo indizio, offerto al lettore, di quel realismo che aveva
sempre caratterizzato il costume politico del Nostro e che rappresenterà la
cifra più significativa dell’opera appena portata a termine. Il nuovo signore
di Firenze, infatti, nipote dell’allora sedente papa Leone X, in virtù della
situazione geo-politica di cui godeva senza merito, era strategicamente meglio
situato di chiunque altro per mandare a effetto la perorazione con la quale Machiavelli, come vedremo, concluderà l’opera. D’altra parte, la consapevolezza di essere
ancora in grado di offrire un valido contributo alla vita politica della sua città aveva esacerbato il suo animo, e aveva a tal punto acuito il peso per
l’esilio, cui fu costretto dal ritorno dei Medici, e dall’ingiusto
coinvolgimento in un complotto anti-mediceo, che Machiavelli sarebbe stato
disposto a qualsiasi compromesso pur di rimettersi in giuoco, nonostante gli
amarissimi giorni di prigionia e torture conosciuti. Ma il suo appello, come
sappiamo, rimarrà sostanzialmente inascoltato, per il sospetto che ancora
pesava sulla sua passata esperienza repubblicana, oltre che per l’insipienza
del nuovo signore di Firenze.
Il
carattere rivoluzionario dell’opera risulta evidente sia sul piano dei metodi che su quello dei contenuti. Essa rappresenta la summa
dell’esperienza di acuto osservatore dei fatti politici che Machiavelli aveva
“imparata (…) con lunga esperienza delle cose moderne e continua lezione delle
antiche”[2].
Egli condurrà, infatti, una indagine di carattere oggettivo sulla realtà per
quella che essa è e non per quello che si immagina debba essere dal punto di
vista morale: non l’ideale, bensì la “realtà effettuale” costituirà il nucleo
intorno al quale la teoria politica doveva d’ora in poi trovare il proprio
ancoraggio, sganciandosi – se necessitata – dalla morale comune.
Ma
quali sono i temi di cui si occupa concretamente l’opera? Annunciandone la
stesura, Machiavelli riferirà al Vettori che in essa: “io mi profondo quanto
io posso nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è
principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, e’ si mantengono,
perché e’ si perdono”[3]. A
tale scopo, l’opera delinea preliminarmente una tipologia di principati,
sorvolando sulle caratteristiche della repubblica, delle quali, invece,
Machiavelli si occuperà lungamente soltanto nei Discorsi, la cui stesura sarà
interrotta appunto per far luogo al Principe.
È
noto che per Machiavelli i principati possono configurarsi come ereditari,
misti, e nuovi: di ciascuno vengono individuate le caratteristiche salienti. Il
Nostro concentra però la sua attenzione sui principati di nuova costituzione, appunto a significare che la creazione di un
nuovo principato, che superasse i particolarismi, avvitatisi in una spirale di
perenne conflitto, era l’unica via, difficile ma praticabile, per creare anche
in Italia uno Stato sufficientemente ampio e potente da respingere le mire
espansionistiche degli Stati d’Oltralpe: le “malvietate Alpi”, di cui parlerà
il Foscolo nei Sepolcri, costituivano infatti un ostacolo geografico facilmente
superabile, poiché gli staterelli italiani non erano in grado di opporre alcun
argine politico-militare che impedisse di essere travalicate dai potentati stranieri alla spasmodica ricerca di facili e succulente prede.
Ma
quali erano le difficoltà che un simile progetto doveva fronteggiare? Per
averne un’idea, vediamo come Hegel le riassunse qualche secolo dopo:
G. W. F. Hegel |
In questo periodo di sventura, quando l’Italia
correva incontro alla sua miseria ed era il campo di battaglia delle guerre che
i principi stranieri conducevano per impadronirsi dei suoi territori, ed essa
forniva i mezzi per le guerre e ne era il prezzo; quando essa affidava la
propria difesa all’assassinio, al veleno, al tradimento, o a schiere di
gentaglia forestiera sempre costose e rovinose per chi le assoldava, e più
spesso anche temibili e pericolose – alcuni dei capi di esse ascesero al rango
principesco -; quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a
sacco ed erano i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione, ci fu
un uomo di stato italiano che, nel pieno sentimento di questa condizione di
miseria universale, di odio, di dissoluzione e di cecità, concepì, con freddo
giudizio, la necessaria idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in
uno stato, con rigorosa consequenzialità egli tracciò la via che era
necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela e
del cieco delirio del suo tempo, e invitò il suo principe a prendere su di sé
il nobile compito di salvare l’Italia, e la gloria di porre fine alla sua
sventura. (…)
Alla
luce di queste considerazioni vedremo che
Il Principe si deve leggere avendo ben presente la
storia dei secoli precedente a Machiavelli, e quella dell’Italia a lui
contemporanea: allora non soltanto il Principe sarà giustificato, ma esso
comparirà come una grandissima e vera concezione, nata da una mente davvero
politica che pensava nel modo più grande e più nobile[4].
Il
nostro intento sarà appunto quello di enucleare succintamente le linee
teoriche principali della “grandissima e vera concezione” che l’opera presenta.
Una volta esaminati i modi in cui si acquista
uno Stato, Machiavelli passa a trattare dei problemi concernenti il mantenimento dello Stato, ossia tutti
gli ‘artifici’ che il Principe deve mettere in atto se vuole mantenersi
saldamente al potere. Uno dei problemi che si presentavano a tale riguardo era
evidentemente costituito della difesa dello Stato. Per Machiavelli il problema più
acuto dell’Italia dell’epoca era quello rappresentato dalle truppe mercenarie,
alle quali gli imbelli signori italiani facevano periodicamente ricorso, nel
tentativo di ritagliarsi un potere più ampio a discapito del nemico di turno.
Sempre pronte a prestare i propri servigi al miglior offerente, e, dunque, a
disfare quello che avevano “costruito” al soldo di altri, le truppe mercenarie
sono considerate da Machiavelli una vera e propria “ruina d’Italia””[5].
Tale problema potrà risolversi solo quando lo Stato si fonderà su milizie
composte esclusivamente dai suoi cittadini, sottoposte al comando del Principe;
non a caso la fondamentale preoccupazione di quest’ultimo deve essere appunto
quella di impadronirsi dell’arte della guerra[6].
Soltanto a queste condizioni le milizie cittadine saranno in grado di
sopportare tutti i sacrifici necessari per la difesa della propria città:
poiché non sarà più la sete di denaro, bensì l’amor di Patria a sostenere la
volontà di combattere.
Tuttavia,
la preoccupazione fondamentale del Principe è quella di adottare tutte le
strategie necessarie per difendere il proprio potere, una volta
impadronitosene. Quella che ci introduce nell’arte della politica è senza alcun
dubbio la parte più originale dell’opera. In essa vengono analizzate le
qualità del principe con un discorso che ci immette immediatamente in quella
che, come sarà chiarito più avanti, dovremo considerare la sfera morale
legittimamente attribuibile all’azione politica. Machiavelli si farà acuto
indagatore di questa tematica, alla luce di una nuova prospettiva metodologica,
elaborata in radicale rottura con la tradizione.
Affinché la condotta del Principe sia all’altezza
del compito, la regola aurea cui si deve scrupolosamente attenere è che egli
svolga sempre la sua azione politica avendo ben presente il mondo dell’essere, piuttosto che quello del dover-essere. Da questa premessa
fondamentale discende l’esigenza di costruire, senza infingimenti, la figura
del principe con spietato realismo. Nel momento in cui dovrà scendere nell’agone
politico, il nuovo principe non dovrà essere guidato dall’ossessiva
preoccupazione di conformare la propria condotta ai dettami della morale
corrente. Sulla base di una concezione profondamente pessimistica dell’uomo, e
nel convincimento che soltanto uno Stato forte possa costituire un reale
rimedio all’iniquità, che è caratteristica costante del comportamento umano,
nasce la figura di un principe che sia parsimonioso, piuttosto che liberale;
crudele al momento opportuno e che non rifugga neppure dall’assassinio
politico, se necessitato; che sia temuto piuttosto che non rispettato. In
altre parole, in Machiavelli si fa per la prima volta strada l’idea che, data
la crudeltà della natura umana, una politica realistica ed efficace non potrà
misconoscerne il ruolo, ma dovrà anzi tenerne organicamente conto e, quindi,
essa dovrà fondarsi non sull’assenza di regole (morali), né, tanto meno,
sull’esclusivo utilizzo di una condotta immorale, come è stato sovente
attribuito alla sua teoria, ancorché a sproposito, bensì su regole di condotta
proprie, le quali, appunto per questo possono anche non coincidere con quelle
prescritte dalla morale religiosa: l’essere ‘buono’ può portare alla “ruina” di
un principe; al contrario, l’inganno o l’assassinio può salvare uno Stato[7].
Certo, come è facile comprendere, si tratta di questioni di estrema delicatezza,
visto che la decisione di operare in un senso piuttosto che in un altro, e la
scelta degli strumenti più idonei alla conduzione dello Stato, sono lasciati
all’arbitrio del singolo principe. Ma è appunto per educarlo alla virtù politica che Machiavelli si
propone con i suoi argomenti, disposti secondo le regole della retorica antica
e medioevale, all’interno però di un apparato teorico del tutto innovativo.
Diversamente
da quanto era accaduto sino a quel momento in campo teorico, Machiavelli prende
atto della separazione o autonomia
esistente nella realtà quotidiana tra la sfera della politica e quella della
morale. Ciò nonostante egli non si preoccupa di escogitare una soluzione
teorica che riesca, per così dire, a realizzare un ‘compromesso’ accettabile
tra le esigenze della morale comune e quelle di un’azione politica efficace,
né, nel caso in cui questa via si rivelasse impraticabile, di “correggere” gli
aspetti immorali della realtà, poiché la sua concezione non discende da
presupposti ideali, né, tanto meno, si propone di realizzarli, ma è piuttosto improntata all’interpretazione della Storia nella sua dimensione di vita
politica activa, la quale implica una
sua propria morale o per dirla in termini più moderni, implica l’autonomia del politico[8].
È
evidente che Machiavelli non fosse interessato alla formazione del buon
cristiano, che la tradizione umanista considerava invece un presupposto
indispensabile per chiunque si proponesse di edificare uno Stato perfetto, per
quanto utopico, poiché l’esigenza primaria che egli persegue è piuttosto quella
di formare il buon Principe: se la religione è soltanto un elemento, tra i
tanti, che entra in giuoco nella sua educazione, il primo e indispensabile dovere che egli dovrà perseguire sarà
invece quello di impadronirsi dell’arte della politica[9].
Anche per questo motivo, nei Discorsi
sulla prima deca di Tito Livio, il Nostro polemizzerà aspramente con Savonarola,
il quale era incline a dare una impostazione esclusivamente moralistico-religiosa
ai problemi politici che angustiavano l’Italia.
La “ruina d’Italia” non era
causata dai peccati (religiosi) degli uomini, come pretendeva Savonarola, ma
era piuttosto la conseguenza dei ‘peccati’ politici del Principe, che andavano
valutati ben più severamente: se dei primi anche i Principi avrebbero dovuto
rendere conto a Dio, una volta giunti al suo cospetto, sperando nel Suo
perdono, dei secondi, invece, il Principe avrebbe dovuto rendere conto anche al
suo popolo, poiché su quest’ultimo si abbatteranno le conseguenze nefaste di
una condotta sbagliata. In questo caso, però, egli difficilmente sarebbe
sfuggito alla dannazione eterna. Di fronte a questa fattispecie di peccati, lo
stesso Savonarola era invece teoricamente disarmato, appunto in virtù della
sua sudditanza dottrinale nei confronti della morale cristiana: egli avrebbe
potuto invocare soltanto una punizione divina, dal carattere inevitabilmente
apocalittico (tale, cioè, da coinvolgere vittime e carnefici), senza tuttavia
riuscire a trovare alcun reale rimedio ai mali denunciati. La morale religiosa,
infatti, gli impediva di tracciare un preciso discrimine tra gli obblighi della
fede e le dure necessità della politica, asservendo questa a quella: non a
caso Machiavelli lo definirà un “profeta disarmato”[10],
nonostante il notevole acume dimostrato nel prevedere le sventure che
incombevano sulla città di Firenze ma, soprattutto, sulla Chiesa, a causa
della dilagante immoralità di cui essa era preda.
Come
è immaginato il Principe dal Machiavelli? “Sendo dunque necessitato uno
principe sapere bene usare la bestia” egli è visto come il mitico centauro,
che “debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché el lione non si
difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere
golpe a conoscere e’ lacci e lione a sbigottire e’ lupi”[11].
La
capacità di dosare raziocinio e forza, l’astuzia della volpe e la ferocia del
leone, in una alchimia che si adegui costantemente al mutare delle circostanze,
è ciò che, in ultima analisi, costituisce la virtù (politico-morale) del principe, al quale, evidentemente, non
è consentito assumere – per rimanere all’interno della stessa metafora –
l’atteggiamento di un agnello che offra, senza combattere, le proprie carni ai
lupi.
D’altra
parte, la dialettica in cui si muove il Principe è quella che si realizza tra
le opposte forze della “virtù” e della “Fortuna”, che possiamo tradurre, in
prima approssimazione, in opposizione tra razionale e caso: dialettica che
verrà analizzata nel cap. XXV.
La
virtù del principe consiste nell’essere sì prudente ma, quando il caso lo
richiede, anche audace e feroce. Questa condotta gli permetterà di affrontare e
volgere a proprio favore almeno quella metà degli eventi che è razionalmente
dominabile dagli uomini, sottraendoli all’influsso determinante della Fortuna[12]: quest’ultima è riconducibile al caso, nel senso
che finisce col coincidere con la “qualità dei tempi”, ossia con la situazione
storica concreta: soltanto una precisa conoscenza di quest’ultima consentirà di
programmare con maggior accuratezza l’azione futura.
Pertanto, la Fortuna potrà essere dominata soltanto da un principe ‘virtuoso’,
beninteso, nel significato politico (e non moralistico) dell’aggettivo:
soltanto se sarà in grado di volgere a proprio vantaggio la ‘qualità dei tempi’,
egli potrà sperare di superare le insidie del caso e, perciò, conquistare il
potere, mantenendolo saldamente, al fine di creare uno Stato nuovo. Al
contrario, la fortuna “dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a
resisterle”[13].
Da questa premessa discende la conseguenza importante che “Quel principe che
si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora,
che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con le qualità
de’ tempi. Ma, se li tempi e le cose si mutano, e’ rovina, perché non muta modo
di procedere”[14].
Guido Reni, La Fortuna |
Qui
si pone, dunque, un problema cruciale: qual è per Machiavelli lo strumento
migliore per accordare (o adeguare) la conduzione del governo alla “qualità de’
tempi”? Machiavelli ne parlerà diffusamente soltanto più tardi, cioè nei
Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, dove si imporrà un esplicito rimando
all’esperienza della Roma repubblicana: diversamente da Firenze, dove
degenerarono in violente lotte di fazione, qui i contrasti politici condussero
a una evoluzione positiva degli ordinamenti dello Stato. In altri termini, la
lotta politica è vista come un bene da preservare, e la forma di governo che
può meglio sfruttare le sue caratteristiche è indiscutibilmente costituita da
un governo repubblicano; diversamente da un governo retto dal singolo
principe, esso risulta inevitabilmente più duttile, potendo più agevolmente di
quello mutare indirizzo politico, adeguandolo al “mutare de’ tempi”. In questo
senso, d’altra parte, si intuisce che il Principe non debba necessariamente
essere personificato da un singolo individuo, poiché può altrettanto bene
materializzarsi in una istituzione sovrana e di governo che trascenda il
singolo.
Francesco Giucciardini |
L’apologia
dello scontro politico da parte del Machiavelli fece scandalo alla sua epoca,
tanto da essere stigmatizzata dal Guicciardini, che tuttavia fu indotto a
quella presa di posizione verosimilmente a causa della “qualità de’ tempi” in
cui fu costretto a vivere: cioè in un’Italia che, non avendo imparato nulla dalla
propria Storia[15],
continuava ad essere dilaniata dalle lotte di fazione e, perciò, era facile
preda delle potenze straniere; esattamente quello contro cui aveva invano
tentato di combattere Machiavelli con la sua attività politica, prima, e
teorica, poi. Da questo punto di vista, e tenuto conto del fatto che
Machiavelli morirà solo poche settimane dopo il sacco di Roma, operato dai
Lanzichenecchi al soldo dell’Imperatore nel 1527, non possiamo non ammettere
che il suo programma politico esca comunque sconfitto dalla Storia del suo
tempo, senza che ciò diminuisca tuttavia la portata rivoluzionaria del suo
progetto teorico. Infatti, non diversamente da quanto accadrà al marxismo,
tutte le teorie politiche, specie quelle che più consapevolmente pongono l’esigenza
di aderire alla realtà, finiscono inevitabilmente col pagare pegno al
dover-essere, in quanto non potranno mai esaurire l’universo empirico dei
fatti, tentando di dominarlo teoricamente[16].
L’unità italiana, che costituisce lo scopo fondamentale de Il Principe, esprimeva, purtroppo,
ancora e soltanto un ideale retorico, poiché neppure il metodo realistico, così
attentamente perseguito, permetterà a Machiavelli di individuare la strada che
avrebbe condotto alla sua realizzazione concreta. D’altra
parte, ma questo Machiavelli non poteva saperlo, dopo la scoperta dell’America,
il centro della Storia del Mondo si stava ormai spostando verso l’altra sponda
dell’Atlantico…
Il Sacco di Roma |
Il
cap. XV, dal titolo: “Delle cose per le quali gli uomini e, in particolare, i
principi sono lodati o vituperati”, costituisce senza alcun dubbio il centro
nevralgico di tutta l’opera. In apertura Machiavelli esplicita la necessità di
rimettere in discussione il modo in cui la tradizione umanista aveva inteso la
teoria politica, e dunque parte dall’esigenza, che egli sentì vivissima, di
marcare nettamente la differenza teorica esistente tra sé e i propri
predecessori.
Egli
vuole scrivere delle qualità e dei modi che un principe deve assumere nei
confronti dei propri sudditi. Tuttavia Machiavelli si accinge a farlo, come
scrive, “partendomi massime… dagli ordini altrui”[17].
In altri termini, egli avverte l’esigenza di distinguere radicalmente il
proprio metodo di indagine da quello adottato dai suoi predecessori, benché
non escluda che, ripudiandone l’eredità ‘teorica’, potrà essere considerato un
presuntuoso.
In
che cosa Machiavelli si distingue dagli altri e, soprattutto, per quale motivo
considera questa esigenza così urgente da attuare, tanto da rischiare anche
l’insulto? La risposta a questa domanda ci catapulterà nel cuore stesso del
problema, permettendoci finalmente di comprendere quale sia la novità teorica
che Il Principe esibisce.
A
differenza dei suoi predecessori, ma non diversamente da quanto lo stesso
Principe, ammaestrato dalla sua opera, dovrebbe imparare a fare, Machiavelli
intende “andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla
immaginazione di essa”[18].
Con questa affermazione Machiavelli rimette radicalmente in discussione tutta
la tradizione precedente.
Infatti, i filosofi antichi, come, ad esempio, Platone, o i trattatisti formatisi in ambiente umanistico “si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti in vero essere”[19]; essi, in altri termini, erano capaci di immaginare un mondo ideale, “tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere”[20], da non essere in alcun modo in grado di dirci come il mondo reale potesse concretamente trasformarsi in quello da loro immaginato: d’altra parte, è appunto questa la caratteristica saliente di ogni utopismo. Come è facile intuire, se il problema fosse circoscritto, come era tipico della tradizione precedente, al solo piano teorico, questa premessa non provocherebbe conseguenze particolarmente rilevanti sul piano pratico. Se qualcuno ardisse invece mettere in pratica tali ricette, questa volta le conseguenze sarebbero gravissime sul piano strettamente politico, perché “colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua”[21]. Ed è appunto per evitare questi pericoli che agli occhi di Machiavelli si impone una radicale resa dei conti con la tradizione. Machiavelli intende perciò parlarci con “freddo realismo” del mondo reale: sia sul piano teorico che su quello propriamente politico, con l’inusitato tentativo di riunire, per la prima volta, teoria e prassi[22]. Da questa premessa empirica, interpretata alla luce degli exempla tratti dalla storia antica e moderna, emerge, cioè, la sintesi costituita dalla sua nuova teoria politica, che è indissociabile da una nuova considerazione politica della morale. Essa servirà non solo a procedere oltre l’astrattezza teorica dei suoi predecessori, ma soprattutto a sostenere concretamente il Principe nell’adeguamento della propria condotta, allo scopo di rovesciare la Fortuna e le passioni umane che vi sono indissolubilmente coinvolte, per condurre in porto il suo progetto. Quale?
Raffaello Sanzio, Platone (da La scuola di Atene) |
Infatti, i filosofi antichi, come, ad esempio, Platone, o i trattatisti formatisi in ambiente umanistico “si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti in vero essere”[19]; essi, in altri termini, erano capaci di immaginare un mondo ideale, “tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere”[20], da non essere in alcun modo in grado di dirci come il mondo reale potesse concretamente trasformarsi in quello da loro immaginato: d’altra parte, è appunto questa la caratteristica saliente di ogni utopismo. Come è facile intuire, se il problema fosse circoscritto, come era tipico della tradizione precedente, al solo piano teorico, questa premessa non provocherebbe conseguenze particolarmente rilevanti sul piano pratico. Se qualcuno ardisse invece mettere in pratica tali ricette, questa volta le conseguenze sarebbero gravissime sul piano strettamente politico, perché “colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la preservazione sua”[21]. Ed è appunto per evitare questi pericoli che agli occhi di Machiavelli si impone una radicale resa dei conti con la tradizione. Machiavelli intende perciò parlarci con “freddo realismo” del mondo reale: sia sul piano teorico che su quello propriamente politico, con l’inusitato tentativo di riunire, per la prima volta, teoria e prassi[22]. Da questa premessa empirica, interpretata alla luce degli exempla tratti dalla storia antica e moderna, emerge, cioè, la sintesi costituita dalla sua nuova teoria politica, che è indissociabile da una nuova considerazione politica della morale. Essa servirà non solo a procedere oltre l’astrattezza teorica dei suoi predecessori, ma soprattutto a sostenere concretamente il Principe nell’adeguamento della propria condotta, allo scopo di rovesciare la Fortuna e le passioni umane che vi sono indissolubilmente coinvolte, per condurre in porto il suo progetto. Quale?
Rinviamo
la risposta a questa domanda a fra poco, concentrando, invece, ancora una
volta la nostra attenzione sulla questione del “metodo”.
Come
abbiamo visto, l’esigenza di un rinnovamento metodologico si pone non soltanto
per motivi teorici, solo apparentemente astratti, ma soprattutto perché, nel
passaggio dalla teoria alla pratica, cioè all’azione politica concreta che un
principe virtuoso dovrebbe adottare, chi rimane legato all’ideale, invece di
attenersi alle concrete vicende che la realtà propone, “troverrà qualche cosa
che parrà virtù e seguendola sarebbe la ruina sua”[23].
In altri termini, Machiavelli sembra dirci che se nella vita politica attiva ci
si dovesse attenere all’applicazione coerente, quanto pedissequa, dell’ideale
cristiano, che prescrive di perseguire sempre il “bene”, rifuggendo il male,
l’esito inevitabile sarà la sconfitta, a causa dei “tanti che non sono buoni”[24].
Contrariamente a quello che il comune buon senso reputa ovvio, Machiavelli era
infatti convinto che la Fortuna si accanisse contro i ‘buoni’, i quali pretendevano mantenere comunque intatta la loro purezza d’animo, nonostante l’impegno
nella vita politica, favorendo invece i progetti dei virtuosi, cioè di coloro
la cui audacia politica e comportamentale era invariabilmente bollata come
immorale. È, perciò, evidente che una visione del genere mal si conciliasse
con la morale corrente, e anzi rendeva inevitabile un capovolgimento dei suoi
comandamenti o un autonomizzarsi da essi. Ma la questione è appunto questa:
tale capovolgimento va perseguito sempre e comunque?
A
questo punto viene avanzata da Machiavelli una considerazione che, come
vedremo, avrà delle importanti ripercussioni ai fini di una adeguata
interpretazione del suo pensiero. Infatti, egli aggiunge che sarebbe cosa
“laudabilissima che il principe conservasse tutte le qualità buone” - quali
sono prescritte al buon cristiano -, ma ciò non è realisticamente possibile,
“per le condizioni umane che non lo consentono”[25].
In altre parole, Machiavelli sembra dirci che il Principe, piuttosto che rendere
(sterile) testimonianza delle proprie “qualità buone”, come la trattatistica
politica e la retorica del tempo auspicavano per ciascuna delle sue decisioni
di governo, deve invece concentrarsi nella comprensione della realtà
effettuale, al fine di escogitare il modo migliore per intervenirvi: per questo
motivo egli non potrà disdegnare il ricorso a quelli che la morale corrente
considera dei “vizi”, quando lo reputerà indispensabile per mantenere e
rendere più saldo il proprio controllo sullo Stato. In altri termini l’uso della forza,
dell’astuzia, del male, è per Machiavelli uno strumento realisticamente irrinunciabile
tra i tanti che la lotta politica richiede. Se il Principe sarà in grado di
utilizzarli oculatamente, per conseguire il proprio obiettivo, egli dovrà a
giusto titolo essere considerato un Principe virtuoso, capace di adottare le
decisioni più sagge al momento opportuno.
Come
abbiamo visto, in queste frasi emerge la visione pessimistica che Niccolò ebbe
“delle condizioni umane”, cioè il suo fermo convincimento del carattere
bestiale della natura umana. Precisamente da questa premessa antropologica egli
fa discendere la necessità di distinguere tra morale e politica, appunto perché
l’esigenza che guidava Machiavelli – a cui si dedicò la sua “mente davvero
politica” - non era quella di creare un’umanità nuova o uno Stato ideale, bensì
di realizzare un progetto politico più circoscritto, ma non per questo meno
ambizioso, date le circostanze: il progetto del Principe è infatti quello di
costruire un’Italia libera dai barbari – spagnoli, francesi e tedeschi, le cui
rivalità dominavano la scena politico-militare del Belpaese -, unificandola
sotto un’unica autorità. Benché la
visione di un Machiavelli cinico o immorale sia ormai talmente diffusa da essersi
trasformata in un luogo comune, nondimeno essa costituisce una interpretazione
erronea, ancorché tradizionale, che ha profondamente segnato la recezione del
suo pensiero politico nel corso dei secoli[26].
Il
Nostro, infatti, non è pregiudizialmente contrario alla morale cristiana: egli
ha semplicemente compreso che in un mondo in cui vige la sete di ricchezza e di
potere, la morale del “porgi l’altra guancia” difficilmente convive con
un’azione politica efficace e, quindi, il rispetto dei suoi dettami non è
sempre auspicabile in campo politico. Se, da un lato, Machiavelli è convinto
che, nella politica attiva,
uno principe, e massimo
uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini
sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare
contro la fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione[27],
d’altra parte, non per questo egli giunge ad
auspicare che quei “vizi”, talora indispensabili, siano estesi anche agli
altri ambiti della vita quotidiana. Al contrario, la preoccupazione di Machiavelli è
che il Principe “abbia uno animo disposto a volgere secondo che e’ venti della
fortuna e la variazione delle cose comandano, e, come di sopra dissi, non
partirsi dal bene potendo, ma saper entrare nel male, necessitato”[28].
Se
le condizioni politiche vigenti costringono a farlo, il Principe deve essere
capace di appropriarsi anche degli strumenti moralmente riconducibili alla
sfera del male per realizzare il proprio obiettivo politico. Il riconoscimento
di questa dura necessità non comporta, tuttavia, lo stravolgimento di tutti i
valori, tale da indurre a cambiare di segno il male, tramutandolo in bene,
poiché anche per Machiavelli è dubbio che si possa dire bene del male. In altre
parole, come scrive Gilbert, per Machiavelli
l’azione
politica non può essere mantenuta nei limiti della morale. Pur indicando che
una linea di condotta amorale può essere non di rado la più efficace adottabile
in una qualsiasi situazione, egli non mostra mai di preferire le azioni amorali
alle morali: Machiavelli non patrocina il male per partito preso: non desidera
rovesciare ogni valore morale (…). Il punto centrale della sua filosofia
politica è che l’uomo deve scegliere: può vivere discosto dalle vicende
politiche e seguire i dettami della morale cristiana; ma se entra nella ‘vita activa’
della politica deve agire secondo le leggi di questa[29].
Voltando finalmente le spalle all’ideale, e rimanendo saldamente ancorato alla “realtà effettuale”, possiamo dire che Machiavelli fondi la scienza della politica nel momento in cui realizza quanto indispensabile sia abbandonare la strada, già sperimentata come improduttiva e velleitaria, dei profeti utopisti o disarmati. Il suo debito intellettuale nei confronti della tradizione umanistica non è, però, del tutto assente: dobbiamo tuttavia circoscriverlo alla perizia dispiegata nell’utilizzo della retorica antica per modulare il proprio discorso, allo scopo di convincere anche emotivamente il suo pubblico, in particolare il Principe, come farà esplicitamente nella perorazione all’Italia dell’ultimo capitolo.
Tuttavia,
in radicale antitesi a una tradizione retorica sempre tesa a dimostrare la
‘bontà’ delle proprie argomentazioni attraverso la sottolineatura della loro
‘moralità’, Machiavelli trae invece l’imperativo di separare morale e politica
dalla necessità di rimanere saldamente ancorato alle regole dettate dalla
‘realtà effettuale’, ma non per contrapporle, bensì per poter scegliere quali
tra esse sia la più opportuna da adottare al mutare delle circostanze. È,
pertanto, la coerenza tra metodo di indagine e contenuti (la condotta
‘virtuosa’ del principe), entrambi fondati sulla “realtà effettuale”, ciò che
fa di Machiavelli un antesignano della scienza politica moderna: la logica
della teoria politica deve in altri termini essere “comandata” dalla logica
dei fatti, emancipandosi, lì dove è indispensabile, dalla logica imposta dalla
morale cristiana, che rende spesso impossibile adattare le regole che ne sono a
fondamento a “e’ venti della fortuna e la variazione delle cose”[30].
È
sufficiente sottolineare questo aspetto fondamentale della sua concezione
dell’autonomia della politica, anzi, della fondazione di essa, per
considerare il Nostro uno dei più eminenti pensatori della politica di tutti i
tempi, benché – e anche questo va riconosciuto - la sua perorazione non abbia
trovato un esito pratico positivo, verosimilmente a causa del fatto che a una
strategia politica “dall’alto”, tesa com’era a enucleare le caratteristiche del
Principe “virtuoso”, egli non seppe coniugare una politica “dal basso”, che
riuscisse, cioè, a ‘regolare’ istituzionalmente lo scontro politico: essa sarà
infatti abbozzata soltanto nei Discorsi[31].
D’altra
parte, per ritornare al problema della morale, affrontandolo, questa volta, dal
punto di vista tradizionalmente ritenuto ad esso più confacente, cioè da
quello della religione, si deve ammettere che una politica esplicitamente
basata sulla morale cristiana non sempre si sia dimostrata meno feroce di una
politica dichiaratamente immorale.
Basti pensare all’esempio che lo stesso
Machiavelli ebbe sotto gli occhi: Papa Alessandro VI Borgia, col seguito dei
suoi temuti figli, e il Savonarola, che non fu certo tenero nei confronti dei
suoi oppositori, fustigando senza tregua i costumi corrotti dei fiorentini,
fino al punto di mandare al rogo i libri e le opere d’arte ritenute licenziose nei famosi falò delle vanità.
Ma non possiamo certo dimenticare la trave costituita dal conflitto tra potere
temporale e potere spirituale della Chiesa, che angustiava l’Europa sin dal
momento della sua nascita, ed era ancora lungi dall’aver esaurito tutte le sue
più nefaste conseguenze: in particolare in Italia, quella di essere il più
tenace baluardo contro la sua unificazione.
Papa Alessandro VI Borgia |
Il Valentino |
Mantenendosi
in un orizzonte esclusivamente terreno (o, come suggerisce Viroli, all’interno
di una concezione religiosa della Patria, allora molto diffusa a Firenze), la
moralità della visione politica del Machiavelli si esplicita nel progetto la
cui realizzazione è demandata al Principe: l’unità e l’indipendenza della
Patria, alla cui perorazione sarà dedicato il XXVI capitolo. Anche se
indirettamente espressa nei continui richiami all’esperienza storica e alla
cronaca politica della sua epoca[32],
tuttavia è soltanto nella perorazione finale, cioè nel luogo in cui
Machiavelli abbandona più vistosamente l’andamento ‘scientifico’ della sua
trattazione, per perorare la causa di un dover-essere tanto agognato, ma mai
realizzato, che dobbiamo vedere più direttamente espresso l’invito, rivolto al
Principe, a forzare, sotto l’urto delle condizioni oggettive, anche i dettami
più sacri della morale corrente, pur di realizzare questo nobile compito. In
altre parole, soltanto alla luce di questo ‘invito’ le “condizioni umane”
acquistano il valore di oggettiva giustificazione della condotta “virtuosa” del
Principe. In assenza di una tale sanzione, la teoria di Machiavelli suonerebbe
effettivamente giustificazione di una machiavellica brama di potere per il
perseguimento del proprio “particulare”: dunque, se è vero che nella vita politica
ordinaria “il fine giustifica i mezzi”, ciò non
è però vero per il Principe di
Machiavelli, per il quale, infatti, l’obiettivo non è, né deve essere, il
potere per il potere, ma ben altro. Il potere di disporre liberamente delle
regole comunemente accettate della morale è il solo mezzo realisticamente a
disposizione del Principe per realizzare, in un mondo di lupi, “l’intenzione
alta” dell’indipendenza della Patria: l’unico scopo moralmente rilevante dal
punto di vista politico, non certo da quello religioso. Un obiettivo che non
soltanto la miope politica dei signorotti italiani, ma anche l’immoralità
politica della Chiesa aveva contribuito ad allontanare, con il ricorso a
qualsiasi mezzo, comunque illecito sia dal punto di vista del politico Machiavelli,
ma, in quest’ultimo caso, soprattutto da quello squisitamente morale. Infatti,
la spasmodica difesa del potere temporale, che aveva caratterizzato la storia
dello Stato pontificio, almeno dalla Constitutum
Costantini in poi, significò non solo l’uso della violenza dispiegata nei
confronti dei propri nemici (fra cui lo stesso Savonarola), ma, soprattutto,
il dilagare della corruzione dei costumi della Chiesa. D’altra parte, la
reazione protestante alla degenerazione della Chiesa cattolica era ormai alle
porte (1517)[33].
In
altri termini, la massima del “fine che giustifica i mezzi” è legittimamente
attribuibile soltanto a un Principe che persegue la conservazione del potere a
proprio esclusivo vantaggio, quando cioè i “mezzi” si tramutano inopinatamente
in “fini”: quindi è legittima soltanto per un Principe peccatore, nel
significato politico che anche Machiavelli avrebbe conferito a questo termine
all’interno della sua laicissima religione della Patria: perciò, soltanto
cancellando l’ultimo capitolo del Principe si potrebbe pensare che quella
regola abbia per Machiavelli un valore regolativo assoluto. Se invece si
insistesse nell’attribuire quella massima gesuitica a Machiavelli si
incorrerebbe in un grossolano travisamento del suo pensiero, palesando, al
contempo, un pregiudizio moralistico nei confronti della sua teoria politica.
La perorazione finale all’Italia dimostra, se si vuole, che Il Principe non è riducibile al
manualetto di un libertino ante litteram,
disposto ad utilizzare qualsiasi mezzo pur di sedurre il potere, allo scopo di
soddisfare esclusivamente le proprie voglie; esso non è come scrive Hegel, lo
“specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore”, poiché Machiavelli –
possiamo ben dirlo! - è il teorico della libertà, e “la libertà è possibile solo
là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno Stato”[34].
Come scrive De Grazia,
infatti, la religione di Machiavelli è quella che vede un Dio politico che
perdona i principi, purché siano pronti a utilizzare qualsiasi mezzo, se necessitati,
per raggiungere lo scopo di assicurare libertà e indipendenza alla propria
Patria[35].
O, detto con le parole di Hegel:
Già il fine che Machiavelli si prefisse, di innalzare l’Italia a uno stato, viene frainteso dalla cecità, la quale vede nell’opera di Machiavelli nient’altro che una fondazione di tirannia, uno specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore. Ma se anche si riconosce quel fine, i mezzi – si dice – sono ripugnanti: e qui la morale ha tutto l’agio di mettere in mostra le sue trivialità, che il fine non giustifica i mezzi, ecc. Ma qui non ha senso discutere sulla scelta dei mezzi, le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda. Una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia[36].
In
altri termini, il principe è legittimato a commettere dei ‘peccati’, per i
quali un comune mortale sarebbe invece inesorabilmente condannato all’Inferno.
Non a caso Hegel afferma:
L’Italia doveva essere uno stato (…): questo universale è ciò che Machiavelli presuppone, questo egli esige, questo è il suo principio per rimediare alla miseria del suo paese. Posto questo, il comportamento del principe si configura in tutt’altro modo. Ciò che sarebbe riprovevole se esercitato da un privato contro un privato, o da uno stato contro un altro stato o contro un privato, è adesso una giusta pena. Promuovere l’anarchia è il peggiore delitto, anzi, l’unico delitto che si possa commettere contro uno stato; ad essa si possono ridurre tutti i delitti che lo stato è tenuto a reprimere, e coloro che aggrediscono lo stato non indirettamente, come gli altri delinquenti, ma direttamente, sono i criminali – e lo stato non ha dovere più alto che quello di conservare se stesso e di debellare nel modo più sicuro tali criminali[37].
Oggi si potrebbe anche sorridere di fronte a questa condanna senza appello dell’anarchia. Ma l’anarchia contro cui Machiavelli combatteva, e di cui anche Hegel perorava la distruzione, non era certo identificabile con la tardo-ottocentesca rivolta del singolo contro la onnipervasiva presenza dell’autorità, in primis quella dello Stato, ma, tutt’al contrario, era quella che, per riprendere le parole di Hobbes, potremmo riassumere nella famosa formula del “bellum omnium contra omnes”, cioè della violenza dispiegata al solo scopo di affermare il diritto del più forte. Era contro questo stato di natura imperante tra gli staterelli italiani, e di cui le popolazioni italiche erano la tradizionale vittima sacrificale, che si rendeva necessario erigere un argine potente: uno Stato unitario alla cui fondazione teorica Machiavelli profuse tutta l’energia del suo ingegno. Al suo appello, però, i contemporanei rimasero completamente sordi: e non possiamo nasconderci che sia appunto questo uno dei problemi più importanti che una teoria politica realistica dovrebbe concorrere a risolvere.
Ma è ancora una volta Machiavelli ad aprirci la strada, per una nuova esplorazione. È infatti evidente che la perorazione all’Italia, inserita al termine di un’opera che inaugura l’indagine ‘scientifica’ della materia politica, è un esplicito esempio di propaganda: ma è appunto l’arma della propaganda che Machiavelli non poté considerare compiutamente come parte costitutiva della sua teoria, poiché ancora al di fuori della portata della sua epoca. Certo la considerazione della religione come instrumentum regni era ben presente al Machiavelli; ma tale strumento era troppo compromesso e logorato – in quel momento storico - per poter fungere da adeguata leva ideologica per la realizzazione di un progetto politico che, per quanto concreto, richiedeva comunque di essere sorretto anche da una poderosa spinta ideale, diversamente da quanto avverrà di lì a poco nei Paesi nordici, grazie al Protestantesimo. Machiavelli sentì acutamente l’esigenza di una profonda riforma morale della Chiesa e della religione, affinché si realizzasse pienamente quella religione (civile) della libertà e dell’amor di Patria, il cui esempio più fulgido era ai suoi occhi costituito dalla Repubblica romana.
Almeno dall’Illuminismo in poi, con la nascita della “opinione pubblica” e, dunque, nella prospettiva di un progressivo allargamento della partecipazione delle “masse” alla lotta politica, iniziata effettivamente soltanto con la Rivoluzione francese, nessuno potrà più sottovalutare il ruolo della propaganda per l’allestimento di una tattica efficace per la conquista e il mantenimento del potere. Sarà infatti questo uno degli strumenti di cui i patrioti italiani si doteranno per dar vita, e condurre in porto, finalmente, il progetto di Machiavelli, realizzando una delle più importanti pagine della storia italiana: l’epopea risorgimentale.
[1]
Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, op. cit., pp. 192-96. Oltre a
evidenti motivi di amicizia, la ragione di questo annuncio va probabilmente
cercata anche nel fatto che, attraverso il Vettori, Machiavelli sperava di
poter diffondere la conoscenza del suo opuscolo anche presso la corte papale.
E’ il caso di sottolineare che le opinioni degli studiosi sui tempi di stesura
dell’opera divergono radicalmente.
[2]
N. MACHIAVELLI, Il Principe, con uno
scritto di G. W. F. Hegel, a cura di U. Dotti, Milano 200412, p. 72. Ciò basti
a riconoscere quanto la biografia di Machiavelli sia indispensabile a
illuminare la teoria, poiché quest’ultima è, a ben vedere, la sintesi della sua
attività politica presso la Seconda Cancelleria della repubblica fiorentina.
[3]
Lettera a Francesco Vettori, cit., p. 195.
[4]
G. W. F. HEGEL, Costituzione della
Germania, in Scritti politici,
tr. it. di C. Cesa, Torino, 1972, p. 101. È da notare come questa
“riabilitazione” sul piano etico del pensiero di Machiavelli da parte di Hegel,
aprirà una nuova stagione di studio del suo pensiero, in particolare in Italia.
[5]
Il Principe, cap. XII, p. 145.
[6]
Ivi, cap. XIV, p. 160.
[7]
Ivi, p. 164.
[8]
Una morale che tuttavia si avvicina molto di più alla religione antica che a
quella dei moderni. Infatti, come lo stesso Machiavelli ebbe a scrivere nei
Discorsi: “La religione antica… non beatificava se non uomini pieni di mondana
gloria, come erano capitani di eserciti, e principi di republiche. La nostra
religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi.
Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione e dispregio delle cose
umane: quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del
corpo, e in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi…” (N.
MACHIAVELLI, Discorsi II, 2 ( Opp.
149b).
[9]
D’altra parte, non possiamo fare a meno di sottoscrive le parole di G. INGLESE,
secondo le quali quello di Machiavelli è l’”inaudito esperimento che consiste
nel porre il mondo della lotta politica come ‘effettuale’ oggetto del pensiero,
come materia di un lavoro intellettuale specializzato. Non filosofo del diritto
costituzionale; non insegnante di retorica in parlamento; ma esperto nell’arte
della guerra per il potere e ragionatore di quelle ‘vittorie e perdite’: il
politico di nuovo modello non è altri che l’autore del Principe” (in N. MACHIAVELLI,
Lettere…, op. cit., Introduzione di
G. INGLESE, p. 10). Machiavelli non poté fare altro che dare forma teorica a
quella che sentiva come un’urgenza pratica inderogabile: l’unità d’Italia, che
chi è immerso nella pratica poteva anche non avvertire. Machiavelli è dunque
alla ricerca di un Principe che intenda ciò che egli scrive, offrendogli uno
scopo, gli strumenti per attuarlo, una motivazione ideale per condurre in porto
con la massima fermezza quello scopo.
[10]
Il Principe, op. cit., p. 104.
[11]
Ivi, cap. XVIII, pp. 176-7.
[12]
“Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere
essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre ma che
etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi” (Cap. XXV, p. 220).
[13]
Ivi, p. 221.
[14]
Ivi, p. 223.
[15]
È nota la differente prospettiva esistente a questo proposito tra Machiavelli e
Guicciardini. Machiavelli, pur essendo perfettamente consapevole del fatto che
gli uomini comuni difficilmente imparino qualcosa dalla storia passata, “Perché
gli uomini sono molto più presi da le cose presenti che da le passate” (ivi, cap. XXIV, pp. 217-18), fonda,
tuttavia, la possibilità di una teoria non utopica, ma realistica (o, come oggi
diremmo: scientifica) della politica, e, di conseguenza, anche la possibilità
di incidere sulla realtà da parte del Principe (dialettica virtù/fortuna),
appunto sulla esemplarità della Storia e, dunque, sulla ripetitività dei fatti
storici: per questo motivo il futuro è in una certa misura prevedibile. Tale
possibilità sarà invece negata recisamente dal Guicciardini, sia pure,
significativamente, al termine di una lunga evoluzione teorica: egli giungerà
infatti ad ammettere che gli eventi storici sono unici e irripetibili e,
perciò, imprevedibili, tanto da affermare che “È fallacissimo el giudicare per
gli esempli, perché, se non sono simili in tutto e per tutto, non servono” (Ricordi, 117).
[16]
Questa affermazione necessita di una breve spiegazione, che ci permette,
peraltro, di collegarci alla nota precedente: per dirla nel linguaggio delle Annales, di evidente derivazione
marxista, la storia evenemenziale può anche apparire ripetitiva (ed entro certi
limiti lo è effettivamente), ma è la lunga durata che lentamente e
inesorabilmente modifica la struttura sottostante sulla quale gli eventi
poggiano. Se ci si passa l’analogia: la Storia è un’auto che ad ogni giro di
pista cambia, appunto perché è in corsa. In questo senso, perciò, Machiavelli
e Guicciardini hanno entrambi torto e, allo stesso tempo, entrambi ragione.
[17]
Ivi, p. 164.
[18]
Ivi.
[19]
Ivi.
[20]
Ivi.
[21]
Ivi.
[22]
Recentemente il filologo M. Martelli ha avanzato l’ipotesi, assai seducente,
che parte del testo del Principe, in
particolare il capitolo finale, con l’esortazione a liberare l’Italia dai
barbari, cioè da francesi e spagnoli, fu composta in occasione di un
avvenimento decisivo, la preparazione di un colpo di Stato da parte di Lorenzo
il giovane, già duca di Urbino e principe di Firenze, per creare un regno che,
con un papa mediceo a Roma, sarebbe andato dai confini del Regno di Napoli al
Ducato di Milano. Nell’incontro di Montefiascone Leone X non dette il suo
assenso e il progetto abortì. Così venne messa la sordina a tutto l’apparato
mediatico, diremmo oggi, di cui Il
Principe di Machiavelli era la punta di diamante.
[23]
Ibidem, p. 166.
[24]
Ibidem, p. 164. È facile vedere qui
il motivo per il quale Machiavelli abbia tanto affascinato i marxisti (soprattutto
italiani): alla lotta tra bene e male è infatti sufficiente sostituire la lotta
di classe.
[25]
Ivi, p. 165. Perché, come scrive
Machiavelli, “degli uomini si può dire questo, generalmente: che sieno ingrati,
volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del
guadagno e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la
roba, la vita, e’ figliuoli come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto;
ma quando ti si appressa si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato
in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina” (ivi, pp. 171-72). Tuttavia, è bene
tenere presente che per Machiavelli “una delle più importanti materie che abbi
uno principe” è quella “e satisfare al populo” (ivi, p. 185).
[26]
Il machiavellico “fine che giustifica i mezzi” è una frase che sarà vano
cercare all’interno dell’opera. Il “Cum finis est licitus, etiam media sunt
licita” lo dobbiamo infatti al gesuita H. BUSENBRAUN, che, nella sua Teologia morale (1650), grazie a questa
polemica, quanto arbitraria sintesi, fece assurgere il pensiero di Machiavelli
a simbolo degli errori a cui portava la libertà di pensiero che aveva
caratterizzato il Rinascimento. Il tentativo dei gesuiti era evidentemente
quello di combattere il successo che le idee del Nostro incontravano presso
gli intellettuali europei, peraltro sempre più persuasi dell’esigenza di una
profonda riforma morale della Chiesa.
[27]
Il Principe, cap. XVIII, pp. 178-79.
[28]
Ibidem, p. 179.
[29]
In F. GILBERT, Machiavelli e
Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento,
tr. it. di F. Salvatorelli, Torino, 1970 , pp. 168-9.
[30]
In questo senso si comprende l’analogia e, allo stesso tempo, la differenza
nell’atteggiamento che Machiavelli e, un secolo dopo di lui, Galilei
adotteranno a proposito del rapporto tra scienza e fede. Infatti, non diversamente
da Machiavelli, Galileo comprese che il metodo di indagine deve sforzarsi di
riprodurre la logica specifica del proprio oggetto di indagine. Per Galileo il
libro della Natura va letto adottando quello che lui individuò come il
linguaggio specifico di essa: quello matematico. Tuttavia, trovandosi a vivere
e operare in piena Controriforma, a differenza del grande fiorentino, il grande
pisano fu sempre attento a sottolineare l’unità di fondo tra scienza e
religione: pur essendo caratterizzate da linguaggi diversi, Natura e religione
discendono indiscutibilmente entrambe da Dio. Come sappiamo, però, ciò non
sarà sufficiente a salvarlo dalla condanna da parte dell’Inquisizione.
[31]
Come è noto, sarà A. Gramsci a dedicare, nei suoi Quaderni dal carcere, gran
parte delle sue energie intellettuali all’elaborazione di una strategia “dal
basso” per la conquista del potere politico, anche sulla scorta del Principe, ovviamente in un quadro
teorico e storico del tutto mutato: la ricostruzione della tattica del Partito
Comunista (il novello Principe), dopo la débâcle
subita ad opera del fascismo, mantenendosi però sempre fedele al metodo di
Machiavelli: la stretta unità di teoria e prassi che, d’altra parte, costituirà
la pietra di paragone, il criterio di “scientificità”, dell’indagine propria
del materialismo storico-dialettico o, per dirla con lo stesso Gramsci, della
“filosofia della prassi” (si cfr. A.
GRAMSCI, Note sul Machiavelli, Roma,
1975).
[32]
Basti pensare all’esame della condotta del Valentino, alla quale sarà dedicato
il capitolo settimo, e del quale Machiavelli scrive: “Raccolte io adunque tutte
le azioni del duca non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come io ho fatto, di
preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme di altri sono
ascesi allo imperio, perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione
alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la
brevità della vita di Alessandro e la sua malattia” (Il Principe, p. 118).
[33]
Sarà appunto lo scisma protestante, col suo seguito di guerre di religione, a
mettere la parola fine, in Europa, al potere temporale della Chiesa di Roma.
[34] G. W. F. HEGEL, tr.
it. cit., p. 104.
[35]
In ID., Machiavelli all’Inferno,
cit.. A questo proposito Viroli commenta che il De Grazia non avrebbe tuttavia
“visto che Machiavelli trova il suo Dio nella tradizione del cristianesimo
repubblicano che viveva a Firenze” (M. VÌROLI, Il Dio di Machiavelli e il problema
della morale dell’Italia, Bari, 2005, p. VIII). Con questa affermazione Viroli
vuol sottolineare che la concezione teorica del Machiavelli è perfettamente coerente
(e perciò affatto in contrasto) con quella cristiana, come abitualmente si
crede. Tuttavia, se ciò è, come abbiamo già rilevato, entro certi limiti vero,
resta comunque da stabilire in quale rapporto si trovi la morale cristiana
allora vigente con il “cristianesimo repubblicano” fiorentino. A questo
proposito crediamo che le parole di Machiavelli sulla religione antica (cfr. n.
8, supra) costituiscano un contributo
decisivo per indirizzarci nella giusta direzione interpretativa. Infatti,
l’opposizione con la Chiesa diviene radicale in ambito antropologico. Se per
la Chiesa l’uomo, creato da Dio, è buono per natura, ed è la Storia a
pervertirlo (dal peccato originale in poi), viceversa per Machiavelli gli
uomini sono cattivi per natura ed è piuttosto la costruzione degli ordinamenti
politici e civili (la Storia, appunto) ad educarlo progressivamente.
[36] HEGEL, tr. it.
cit., p. 105. È da notare che la “cecità” cui qui
si riferisce Hegel è ascrivibile agli idéologues
illuministi, che, in preda agli stessi pregiudizi che intendevano combattere,
fecero acriticamente propria la “interpretazione” gesuitica, e, quindi,
imbarazzati dal ‘machiavellismo’ morale erroneamente attribuito al Nostro, essi
lo trasfigurarono in una surrettizia denuncia dell’ipocrisia del potere. In
altri termini da questa interpretazione discende la figura di un Machiavelli
antesignano dell’Illuminismo, capace di denunciare, per dirla con un famoso
verso di Foscolo, “di che lagrime grondi e di che sangue” il potere:
affermazione estremamente efficace sul piano poetico, ma tutt’altro che
corretta da quello teorico, poiché implica una acritica condanna moralistica
della spregiudicatezza del potere politico, che non avrebbe certo potuto
trovare concorde il Nostro, poiché, al contrario, egli fu sempre pronto a
esaltarla come una delle maggiori virtù
del Principe.
[37]
Ivi.
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